Antonio Sant’Elia (1888-1916) è una delle più note e celebrate figure della generazione di progettisti che, agli albori del Novecento, hanno profondamente rivoluzionato l’immaginario collettivo della nascente civiltà della macchina in tema di prefigurazioni urbane. Le radicali teorizzazioni dell’architetto comasco possono essere, infatti, annoverate tra le molte riflessioni sulla metropoli contemporanea, dalla Citè Industrielle di Tony Garnier (1901-1904) alla Ville Radieuse di Le Corbusier (1930), che anticipano i principi della nuova urbanistica ufficialmente sanciti solo nel 1933, con la stesura della celebre Carta d’Atene: il documento fondatore dell’odierna disciplina, elaborato durante il quarto Congresso Internazionale dell’Architettura Moderna. Ciò che distingue la precoce esperienza di Sant’Elia è, però, la straordinaria carica immaginifica di uno sparuto gruppo di disegni che, a oltre un secolo dalla loro stesura, continuano a essere forieri di invenzioni solo in minima parte realizzate, finalmente, con l’avvento del nuovo millennio.
Su questo straordinario contributo alla nostra società si concentra la mostra Antonio Sant’Elia. Il futuro delle città, recentemente inaugurata alla Triennale di Milano (resterà apaerta fino all’8 gennaio) grazie alla collaborazione con le Soprintendenze di Milano e di Como e con il Comune della città natale dell’architetto, coinvolti per commemorare il centenario della sua scomparsa attraverso un ricco calendario di appuntamenti. Oltre all’esposizione al Palazzo dell’Arte sono state organizzate altre due mostre: una alla Pinacoteca Civica di Como (intitolata Antonio Sant’Elia. All’origine del progetto) e l’altra all’Ordine degli Architetti di Como (che ha sede nel Novocomum di Terragni). Agli inizi di dicembre è invece previsto un convegno internazionale («Antonio Sant’Elia e l’architettura del suo tempo»), che si svolgerà sotto l’egida dell’Università di Firenze e dell’Ordine degli Architetti del capoluogo toscano.
L’evento milanese si articola in diverse sezioni, allestite da Lucio Speca e arricchite da una performance pittorica di Fabrizio Musa. La prima è una sala in cui la curatrice Ornella Selvafolta ricostruisce gli anni della formazione di Sant’Elia, nell’alveo della sua attiva partecipazione al movimento futurista e, più in generale, del fervente clima di rinnovamento culturale, urbanistico e architettonico della Milano d’inizio secolo, in cui il progettista vive e lavora a partire dal 1907. La seconda è un’eccezionale raccolta di quaranta disegni, elaborati intorno al 1914 per la Città Nuova, poi ribattezzata Città Futurista, attraverso cui Alberto Longatti racconta i caratteri, a tratti sovversivi, della metropoli santeliana: un paesaggio fortemente antropizzato, in cui centrali elettriche, stazioni ferroviarie, hangar per aeromobili, avveniristici viadotti, complesse ragnatele di autostrade e rotaie sospese, montacarichi, ascensori e tapis roulants sfacciatamente esibiti diventano totem di una modernità in cui infrastrutture e abitazioni si mescolano, in nudi e tecnologici ziggurat rivolti all’incessante tumulto della città. Una visione che, ricorda Longatti nel bel catalogo edito da Skira, consente al filosofo Sanford Kwinter di includere Sant’Elia (insieme all’amico Boccioni) nel novero di personaggi che, da Kafka a Einstein, hanno prodotto significative ricerche spaziotemporali.
La terza sezione, curata da Fulvio Irace e Matteo Agnoletto, chiarifica in un suggestivo puzzle d’immagini di architettura contemporanea la tesi elaborata nel 1972 dal noto critico Reyner Banham, tra i primi cantori del ruolo pionieristico di Sant’Elia nella costruzione dell’architettura moderna. Secondo Banham gran parte delle avanguardistiche megastrutture fin lì realizzate o immaginate derivano, consapevolmente o meno, dagli scritti e dai progetti di Sant’Elia. I metabolisti giapponesi alla Kisho Kurokawa, il franco-ungherese Yona Friedman, gli inglesi del gruppo Archigram o l’austriaco Frederich St. Florian vengono letti come fedeli interpreti dei diktat con cui s’incitava, attraverso il Manifesto dell’Architettura Futurista (1914), alla rivoluzione progettuale: «la città come cantiere permanente / la casa simile a una macchina gigantesca / gli ascensori come serpenti di ferro e di vetro che si inerpicano lungo le facciate / le strade sprofondate per molti piani sotto terra ad accogliere i flussi del traffico e collegate tra loro da passerelle metalliche e velocissimi tapis roulant». La prematura scomparsa di Sant’Elia ha congelato le sue embrionali osservazioni, in questi versi e nei pochi ed evocativi – più che esplicativi – disegni della Città Nuova, ma ha trovato terreno fertile in esperienze analogiche, differite nel tempo, che Irace e Agnoletto spingono oltre le osservazioni di Banham, fino alle soglie della cronaca: nella narrazione vengono inclusi edifici come il Lynked Hybrid di Steven Holl (2003-’08) o l’insospettabile scheggia londinese di Renzo Piano (2000-’12), oltre che il richiamo ad alcune scenografie cinematografiche. Il progetto è insomma presentato come imperituro archetipo in cui quello che a lungo era stato considerato il suo maggior limite, l’essere cioè circoscritto a una rappresentazione sinottica non supportata da un vero e proprio programma, diventa il suo punto di forza.
A conclusione del percorso espositivo è collocato il Piccolo Sant’Elia, una creazione di Alessandro Mendini a cavallo tra arredo e scultura che l’autore descrive con poche, significative frasi: «Rendere miniatura l’architettura monumentale di Sant’Elia sembra un controsenso. Eppure questo mobile tenta questo gioco, un Sant’Elia formato bonsai, un piccolo concentrato di sistemi energetici che esplodono dalle dinamiche e dalle prospettive dei suoi disegni. Questo mobile architettonico interpreta nel suo skyline, nei piani e nei volumi, le ipotesi urbane, tra loro elaborate e mixate di un grande visionario del Futurismo».