Il consueto appuntamento del Festival Internazionale di Cinema e Donne, a Firenze, lo scorso novembre, offriva all’interno del suo programma, come sempre, ricco, un itinerario nel cinema di Margarethe von Trotta, con la visione di alcuni suoi film, affiancati da una tavola rotonda presso l’accogliente Istituto Tedesco di Borgognissanti, cui oltre a Margarethe von Trotta, hanno partecipato Debora Spini, Francesco Santi, Ester de Miro d’Ajeta, Elena Pulcini, e io stessa, invitate a discutere di alcuni film della regista tedesca, dedicati a personalità come Hildegard von Bingen, Rosa Luxemburg, Hannah Arendt. Sante, rivoluzionarie, filosofe, di cui la regista si fa interprete con una particolare attenzione alla loro esperienza e magistero. Ecco, un estratto del mio intervento, di quel giorno.

Nella bella nota biografica, con cui Ester Carla de Miro concludeva il suo testo dedicato a Margarethe von Trotta

(Le Mani,1999), vengono raccontati i primi anni di vita della piccola Margarethe, che allora abitava a Berlino con la madre, donna colta e aperta, nata a Mosca, che non si era mai voluta sposare per mantenere una propria libertà. Da lei, Margarethe ascoltava i racconti di una Russia fiabesca e lontana, mentre, attraverso le fessure nelle pareti delle povere stanze in affitto, dove vivevano, vedeva filtrare la luce, che disegnava strani arabeschi: “ Mi chiedo se per me l’amore per il cinema non sia cominciato proprio con quei fili di luce”.

Se si parte da questo ricordo d’infanzia, sembra quasi che Margarethe si sia rivolta al cinema, riflettendo, in modo allora ancora inconsapevole, su ciò che lo fonda più materialmente e intimamente, e cioè sul rapporto stretto e indistricabile tra la luce e il buio.

Proprio nell’ultimo film di Margarethe von Trotta, Hannah Arendt, questo contrasto si carica di un doppio registro, stagliandosi da un lato come uno degli elementi, delle figure, più intense e ricorrenti del suo cinema, mentre dall’altro, l’annodarsi di luce e buio, introduce la materializzazione concreta di una linea di ricerca. Quando, all’inizio del film, si mostra Adolf Eichmann sequestrato in Argentina dai servizi israeliani, la sequenza si chiude con l’immagine di una pila che gli era caduta di mano e che resta accesa, per terra, a illuminare il buio. Questo elemento, apparentemente insignificante, non è in realtà casuale, così come non si tratta di una semplice coincidenza che nei testi di Hannah Arendt, da La vita della mente a Tra passato e futuro, fino a Men in dark times, si insista tanto spesso sull’immagine di una debole luce che si fa strada a fatica tentando di illuminare ciò che è oscuro.

Come già avveniva nei film di Roberto Rossellini dedicati ai filosofi – Socrate, Cartesio, a Pascal, Agostino d’Ippona, ecc – in Hannah Arendt non ci si trova di fronte ad un racconto biografico, in chiave illustrativa, al contrario è come se lo stesso processo di pensiero, passando dall’invisibile al visibile, prendesse vita e spessore sullo schermo. Hannah Arendt, non va tuttavia preso, come un film biografico in senso stretto, il film non racconta cioè la vita di una filosofa che del resto non accettava neppure di essere considerata tale, preferendo considerarsi una docente di teoria politica. Si ha invece a che fare con un’operazione molto più segreta e sottile, quasi intima, dato che quelle stesse categorie di pensiero su cui Hannah Arendt lavorava, vengono assorbite nel tessuto del film, acquisendo visibilità e presenza proprio attraverso i dettagli più comuni della sua vita quotidiana.

Questo riguarda, ad esempio, la scelta della palette dei colori, che nel film ha un ruolo rilevante, soprattutto nelle sequenze all’interno della casa di Morningside Drive, confortevole e invasa dai libri e dal fumo delle sigarette, dove Hannah viveva con il marito Heinrich Bluchner. A dispiegarsi qui è tutta una tavolozza di toni bruciati e terrosi, sensibilmente interpretati da Caroline Champentier, direttrice della fotografia e già collaboratrice di registi quali Godard, Rivette, Garrel, Gitai e altri; una gamma precisa di colori che trovano un riscontro puntuale nei passaggi della fitta corrispondenza che Hannah Arendt intratteneva con amici e colleghi.

Comincia ad apparire chiaro come all’interno del film prenda corpo una cura nella documentazione, mai illustrativa ma sostanziale, che la regista ha sempre adoperato nel suo lavoro, basti pensare a film come Rosa Luxemburg, Anni di piombo, Rosenstrasse. La Storia in rapporto alle singole storie, e alle singole vite è sempre stato un intreccio voluto da Margarethe von Trotta, dove la Storia con la S maiuscola non viene mai posta come sfondo o illustrazione, ma appare come una presenza viva, reale e direttamente implicata con le singole vite, dove ogni dettaglio conferisce un’immediatezza e un calore che tocca nel profondo, per la sua verità. Ciò avviene, ad esempio, con il kimono rosso indossato da Rosa Luxemburg durante la festa di Capodanno del 1900, un dato reale e preciso, documentato da una fotografia, in cui von Trotta si era imbattuta per caso durante il lavoro di preparazione al film, che una anziana signora che aveva conosciuto personalmente Rosa Luxemburg, teneva in casa.

Questo peso dato ad alcuni elementi presi dalla vita reale che entrano direttamente nel film, è un elemento del lavoro di von Trotta che rimanda a quello di Hannah Arendt e al suo modo di intendere la filosofia. Adriana Cavarero, una studiosa che di Arendt si è occupata a lungo, ha sottolineato come il suo percorso teorico fosse sempre calato nella “fattualità del reale”, dato che per Arendt legare il suo pensiero con i fatti, era un modo per radicarlo nel mondo e nella condizione mondana.

Nel corso di tutta la sua esistenza, Arendt ha sempre implicato il suo pensiero con alcuni fatti significativi della storia contemporanea, come le rivolte studentesche negli Stati Uniti, la sua condizione di ebrea immigrata, fino allo stesso processo Eichmann, che, per lei, che ne fece diretta esperienza, si trasformò in un vero e proprio laboratorio in atto. Visto da questa prospettiva, l’incontro tra von Trotta e Arendt era inevitabile, proprio alla luce di questa affinità di pensiero che le lega. La necessità di Arendt di calarsi nella “fattuità del reale” trova un riscontro simmetrico nel percorso di Margarethe che ha scelto il cinema, come mezzo privilegiato per incontrare il mondo e interpretarlo.

Ciò avviene anche con Hannah Arendt, di cui si mostra il pensiero e la vita, colta attraverso un episodio essenziale, cioè il processo Eichmann a Gerusalemme. Nel 1961 Arendt aveva seguito il processo di persona, come inviata del New Yorker, per il quale scrisse un report circostanziato, poi pubblicato in un unico testo dal titolo La banalità del male, che le costò molti attacchi, anche da parte di molti suoi amici, prima di tutto, per la sua critica a Ben Gurion e al procuratore Gideon Hausner di aver messo su un processo propagandistico e teatrale, poi, per aver chiamato in causa i consigli ebraici, ritenuti in qualche misura implicati nella deportazione, e poi nello sterminio, e infine, per lo stesso profilo di Eichmann, da lei tracciato. Ciò che va detto, e che il film di von Trotta mette in evidenza, è invece il fatto che la principale preoccupazione di Hannah Arendt a Gerusalemme era stata, prima di tutto, la necessità di capire. Per poterlo fare liberamente, era partita dall’esperienza diretta dell’imputato, semplicemente osservandolo, seduto al banco degli imputati. Aveva così capito che Eichmann non era affatto un eroe dostojevskiano o shakespeariano, un mostro di efferata crudeltà, come forse sarebbe stato più facile e consolatorio credere. L’ufficiale nazista, durante tutto il processo, si era dimostrato un burocrate, qualcuno che aveva soltanto obbedito agli ordini, che parlava per frasi fatte e la cui unica preoccupazione era stata la carriera. Per Arendt,“ Eichmannnon capì mai che cosa stava facendo. La sua mancanza di idee ne fece un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo”. Ma banale non vuol certo dire innocente.

Gershom Scholem, in proposito, ebbe con lei un celebre scambio di lettere, e Hannah, in merito alla radicalità del male, gli aveva risposto che “il male non è mai radicale, ma soltanto estremo, e non possiede né profondità, né una dimensione demoniaca. Però può invadere il mondo intero perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Sfida il pensiero perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità di andare alle radici, ma nel momento in cui cerca il male è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua banalità. Perché solo il bene è profondo e può essere radicale.”(La banalità del male. Feltrinelli 1993).

La polemica continuò e fu particolarmente dolorosa per Hannah, costandole l’amicizia con Kurt Blumenfeld e con Hans Jonas, suo compagno di studi e allievo amatissimo di Heidegger. Nel 1967, per tornare sulla questione, Hannah Arendt scrisse il saggio, Verità e politica, in cui sottolineava come un percorso storico abbia sempre la necessità di essere interpretato e raccontato. In un passaggio osservava: “ La realtà è differente ed è più della totalità dei fatti e degli eventi, che in ogni modo non è verificabile. Colui che dice ciò che è – leghei ta eonta – racconta sempre una storia e in questa storia i fatti particolari perdono la loro contingenza e acquistano un significato umanamente comprensibile. E’perfettamente vero che tutti i dispiaceri possono essere sopportati se li si inserisce in una storia o se si racconta una storia su di essi”.

Ci viene così mostrato da Arendt che la funzione politica del narratore – storico o romanziere – è precisamente quella di insegnare ad accettare le cose così come sono. E’ a partire da questa accettazione, che può anche essere chiamata sincerità, che per Arendt si costituisce la facoltà di giudizio.

Questo valore dato alla narrazione svolge un ruolo centrale nel suo pensiero, che sul tema di un sé narrabile ha riflettuto molto, basti pensare al passaggio ne La vita della mente,in cui descrive quel punto dell’Odissea in cui Ulisse alla corte dei Feaci ascolta le sue stesse gesta cantate da un aedo, e solo allora piange, perchè è soltanto ascoltandone il racconto che egli può acquistare piena nozione del suo significato. Il senso del racconto non è altro che la sua storia di vita, e per Arendt il significato di una storia di vita è sempre affidato ad una biografia, ossia al racconto di un altro. Questo aspetto del pensiero arendtiano rimanda, evidentemente, al lavoro di Margarethe von Trotta, che a sua volta ha sviluppato nel tempo un particolare interesse nei confronti delle biografie, da quella di Rosa Luxemburg, a quella di Ildegarda von Bingen, per finire con Hannah Arendt; tre film, magnificamente interpretati, e non a caso, dalla stessa attrice, Barbara Sukowa.

In particolare, Rosa Luxemburg e Hannah Arendt, lavorano su elementi comuni, che coinvolgono prima di tutto l’identità sessuata – si tratta infatti di due donne -, entrambe di origine ebraica, ed entrambe appassionatamente coinvolte e impegnate nella teoria politica. Sia Arendt che Luxemburg avevano un’abitudine in comune di scrivere lettere, che per entrambe erano una specie di diario in connessione con il mondo, che permetteva loro di mantenere, anche a distanza, e nel caso di Rosa, nonostante il carcere, amicizie e rapporti di scambio.

Un ulteriore rapporto è dato dal fatto che Hannah Arendt, nel suo testo Men In Dark Times, ha dedicato uno dei saggi più intensi che lo compongono, proprio a Rosa Luxemburg, per lei la personalità più controversa e meno compresa, tra i vari esponenti della sinistra tedesca.

Arendt in quel saggio parla a lungo delle lettere di Rosa Luxemburg per sottolinearne la semplicità e la forza; erano lettere intime, personali, ricche di una loro intrinseca bellezza poetica. Secondo Arendt, la sola presenza delle lettere bastava a demolire il clichè di una Luxemburg vista come una rivoluzionaria assetata di sangue, anche se, dopo la loro pubblicazione, si era presto instaurato un clichè opposto, cioè quello di un’immagine di Rosa troppo “sentimentalizzata”.

E’ paradossale che proprio questa stessa immagine “edulcorata” sia stata additata da certa critica come uno dei difetti più vistosi del film di Margarethe von Trotta, colpevole di aver dato un rilievo eccessivo a una Rosa che si incantava troppo a guardare i fiori e gli uccellini. Eppure, Rosa Luxemburg era stata veramente una pacifista e un’ecologista ante litteram. Sono essenziali, da questo punto di vista, le sequenze nel film in cui la si vede al lavoro nell’orto che lei stessa ha coltivato o intenta a scrivere, circondata dalle piante all’interno della sua cella, nel carcere di Wronke. Rosa, a Zurigo, aveva anche studiato botanica, e le era rimasto un senso vivo della natura, che si ritrova nelle sue lettere, quando, ad esempio, rivendicava l’appartenenza del suo io più segreto “più alle cinciallegre che ai compagni”.

La grande forza del film di Margarethe von Trotta, se mai, è proprio quella di aver dato spazio a questi elementi che facevano parte della complessità umana e politica di Rosa Luxemburg, che era stata in grado di intuire prima di altri la piega che avrebbero preso gli avvenimenti, come ad esempio la tragedia della prima guerra mondiale, di cui aveva compreso, con disperazione, l’imminenza.

Arendt descrive anche quello che era stato il background familiare di Rosa, ebrea polacca, fondamentalmente apolide, tutto insomma, fuorchè una nazionalista, del resto, Rosa aveva sempre affermato che la patria della classe operaia è il movimento socialista, e la sua stessa idea di rivoluzione, avrebbe dovuto estendere la democrazia a tutti, e non certo abbatterla. Arendt si è soffermata anche sul multilinguismo di Rosa, che oltre al polacco parlava russo, tedesco, francese, italiano, inglese, ed è legittimo pensare che sentisse l’esperienza di Rosa, da questo punto di vista, estremamente vicina alla propria.

Questo elemento della lingua, o meglio delle lingue, mi sembra un dato molto utile, per cogliere in una stessa continuità il multilinguismo di Rosa e quello di Hannah, fino ad arrivare, a Margarethe von Trotta, che a sua volta, oltre alla sua lingua madre, il tedesco, parla correntemente l’inglese, il francese e l’italiano.

In una lunga e giustamente celebre intervista del 1964 con Gunter Gaus (La lingua materna, Mimesis 1993) Arendt parlava della lingua materna, cioè della lingua tedesca come di qualcosa, anzi, come dell’unica cosa, che le era rimasta dell’Europa pre-hitleriana, spiegando come fosse un fatto vitale e di importanza assoluta il poter conservare la propria lingua madre, in quanto elemento sorgivo e in relazione diretta con la propria creatività interiore.

Vorrei chiudere il mio intervento proprio con questo elemento della lingua, aperto e in trasformazione, che attraversa in modo così sottile, segreto e vivo entrambi i film, Rosa Luxemburg e Hannah Arendt, conferendo loro, nel continuo avvicendarsi tra le lingue, un senso fortemente politico e conflittuale, oltre a una ricchezza di senso e a una capacità di mettere insieme mondi diversi, singole storie nel passo della Storia, che, del resto, è anche la grande forza del lavoro di Margarethe von Trotta al cinema.