Futuro fantastico era stato, l’anno scorso, il titolo di un festival mancato, quello del cinquantennale da festeggiare con un’edizione un po’ speciale, guardando al futuro appunto, sotto la cura di Daniela Nicolò e Enrico Casagrande. Erano stati molto bravi, i due artefici di Motus, molto opportuno l’ottimismo della volontà con cui erano riusciti a dar vita a un evento concentrato in pochi giorni, al posto di quello che non si poteva più realizzare. Ed era stato quasi commovente ritrovarsi lì in tanti, dopo i mesi della clausura, nella piazza che da sempre del festival è il simbolo e qualcosa di più, attorno a Virgilio Sieni impegnato in un mirabile corpo a corpo con il gesto dei maestri della pittura (ricordo che, al tempo lontano della prima direzione artistica di Leo de Berardinis, il primo gesto politico che si pensò fu un atto pubblico da tenersi in piazza per riaffermare il legame fra la cittadina romagnola e il suo festival, scosso da feroci polemiche, peccato che non ce ne sia traccia nel volume celebrativo pubblicato quest’anno per l’occasione).

Futuro fantastico allora, di nuovo. Come a voler riprendere un discorso interrotto, o come a voltarsi indietro un’ultima volta mentre si corre verso qualcosa che si può solo immaginare. Festival «di meduse, cyborg e specie compagne» lo definisce il sottotitolo. Ramificato in capitoli tematici che dovrebbero prefigurare il fantastico teatro del futuro. Ai «bestiari fantastici» appartengono ad esempio le Cimatic dances della coreografa Amanda Piña, ispirate a danze tradizionali di popolazioni indigene del Messico, o Cherish Menzo che aveva impressionato l’anno scorso per l’energia e la giovanile prestanza atletica con cui metteva in gioco il tema dell’identità (o forse della sottrazione di un’identità) e ora, in Jezebel, si confronta invece con gli stereotipi diffusi sulla provocante sensualità delle donne nere. Ma la lunga petizione di principio di Amanda Piña sui danni causati dalle attività di estrazione della società mineraria Anglo American nelle Ande centrali non riempie di contenuto le danze presentate insieme ad altre due interpreti, un prologo lentissimo a terra, un ritmico avanti e indietro sulla scena, dove si va gonfiando un pallone su cui si proietta l’immagine di un suolo pietroso.

IN ALTRI casi l’ibridazione passa attraverso la sperimentazione di forme artistiche differenti, come nel caso del deludente Klub Taiga. Dear darkness del collettivo Industria Indipendente, che cala nella «cara oscurità» di un ambiente ingombro di arredi poche presenze che si muovono senza saper bene cosa fare, se non abbandonarsi a parole di imbarazzante insensatezza.

O Ultraficciòn, opera collettiva della compagnia iberica El Conde de Torrefiel, tappa preparatoria di un nuovo spettacolo che dovrebbe debuttare nel prossimo anno. Davanti agli spettatori, convocati nel grande prato al di là dei capannoni commerciali della periferia, sta un enorme schermo. Tutto ciò che vedrete è reale, ci dicono. In realtà ciò che si vede è solo lo schermo e poco altro, in mezzo a musiche fragorose. Passa avanti e indietro una macchina, si illumina una porzione del bosco che sta di lato, irrompe in mezzo al pubblico un gregge di pecore. Sullo schermo brevi frasi si succedono a delineare un intreccio di storie tutte incompiute. Un barcone di migranti alla deriva, un aereo in avaria in volo per Tel Aviv…

E IL TEATRO? Va da sé che in questo contesto molta attenzione sia offerta alle giovani generazioni, e non è un caso forse che il risultato più convincente fra le cose viste a Santarcangelo sia offerto da Alexia Sarantopoulou e Ondina Quadri, regista la prima e interprete la seconda di un Emilio che prende spunto assai liberamente dall’omonimo romanzo pedagogico di Jean-Jacques Rousseau. Dall’immobile silhouette iniziale alla Kara Walker emerge lentamente una pittorica natura morta di frutti sparsi fra teiere brocche vasi, al cui interno gioca l’innocente nudità della protagonista, componendo e disfando incantati tableaux vivants. Con sottili tubicini e liquidi colorati sperimenta la teoria dei vasi comunicanti per sporcare la scena. La natura si rivela parte di un artefatto, un viaggio nella storia dell’arte dai caravaggeschi all’action painting passando per Gilbert & George e la body-art.

Nicolò e Casagrande terminano qui il loro mandato. Dal prossimo anno tocca al nuovo direttore artistico, il polacco Tomasz Kirenczuk (replicando la frequente pulsione del festival per il «papa straniero», dal francese Olivier Bouin alla bielorussa Eva Neklyaeva). Lo attendiamo con curiosità.