Nel 1632 Jean-Jacques Bouchard ha definito Napoli ‘Urbs sanguinum’, ovvero la ‘città dei sangui’, rimanendo esterrefatto di fronte alle infinite reliquie di martiri cristiani accuratamente conservate in città nel chiuso dei conventi o delle residenze private. Come un filo di Arianna, la geografia del sangue lega diversi tempi e culture che compongono la storia napoletana e la sua geologica stratificazione, dove il corpo e il sangue, i rimandi più arcaici, sono ancora presenti. Sebbene il miracolo dello scioglimento del sangue s’identifichi con san Gennaro, altre sante e santi compiono lo stesso prodigio. In primis santa Patrizia, il cui sangue si scioglie il 25 agosto, giorno della sua festa, e ogni martedì mattina. Dal 1625 santa Patrizia, alter ego femmineo di san Gennaro, è compatrona di Napoli: compie un miracolo simile per ciclicità, ma legata ai processi naturali femminili. Il sangue è un reticolo barocco che irrora e purifica il corpo di Napoli. Il miracolo avviene nella Chiesa di san Gregorio Armeno, nota anche come Chiesa di santa Patrizia dove si conservano anche altre reliquie, tra cui il corpo e il sangue di santa Patrizia, la testa e una tibia di san Gregorio Armeno. Il Monastero, secondo la tradizione, sorge sui resti del tempio di Demetra. È stato fondato nel secolo VIII da un gruppo di monache dell’ordine di san Basilio, fuggite da Costantinopoli con le reliquie di san Gregorio, vescovo d’Armenia. È situato nella strada omonima, un tempo detta Augustale perché collegava la Curia Basilicae Augustinianae con il decumanus inferior, poi chiamata Nostriana dal Vescovo di Napoli Nostrano. Le doti miracolose di santa Patrizia, già note nel secolo XII, per il trasudamento della manna che sarebbe avvenuto dalle pareti sepolcrali che custodiscono il corpo della santa, e in seguito per la liquefazione del sangue, hanno avuto a Napoli nei secoli eco minore rispetto a quelle di san Gennaro.

Patrizia, secondo la leggenda, è figlia di Costante e nipote dell’imperatore Costantino II il Grande. Nasce a Costantinopoli nel 340 d.C.; alla morte della madre viene affidata alla nutrice Aglaia che l’istruisce alla religione cristiana. Sin da piccola esprime voto di verginità e per mantenerlo fugge di casa, perché il padre vuole imporle il matrimonio. Patrizia spesso si offre a Dio andando in estasi. Rimane ore intere in preghiera senza dare alcun segno di vita. Pratica l’astinenza dal cibo, la mortificazione del corpo, intesi quale nutrimento dell’anima. In compagnia di donna Aglaia e di altre ancelle si reca a Roma, dove riceve da papa Liberio (352-366) il velo di sposa di Cristo e il consenso per fondare l’ordine religioso delle Patriziane. Ritornata a Costantinopoli, rinuncia alla corona imperiale, si spoglia di ogni proprietà terrena distribuendo le ricchezze tra i poveri. Parte poi in pellegrinaggio con le consorelle verso la Terra Santa ma, durante la traversata, una violenta tempesta fa naufragare l’imbarcazione sulle coste di Napoli; qui si rifugia in prossimità della riva, più precisamente sull’isoletta di Megaride, oggi Castel dell’Ovo, e vive nelle grotte. Tali luoghi scavati nel tufo sono noti come i romitori di santa Patrizia e l’unica cella, che ancora oggi conserva affreschi alle pareti, viene identificata dalla tradizione popolare come la sua. Patrizia, durante il soggiorno a Napoli, dona i propri averi ai poveri e conforta le pene di quanti soffrono. Dopo alcuni mesi, a ventuno anni, muore. Il corpo viene posto su un carro tirato da due tori che da indomiti diventano miracolosamente mansueti: dopo aver vagato per le strade di Napoli, si fermano davanti al monastero di Caponapoli retto dai Padri Basiliani, dedicato ai santi martiri Nicandro e Marciano. È lo stesso monastero dove Patrizia, in una tappa a Napoli durante il precedente viaggio verso Roma, è rimasta con le consorelle, le Patriziane, e che ha indicato come luogo in cui avrebbe riposato il proprio corpo. Il monastero, trasferiti i monaci Basiliani in quello di san Sebastiano, viene retto dalle Patriziane e, sotto la regola benedettina, ha secoli di vita gloriosa. Per eventi storici e politici, nel 1864 il convento viene soppresso e le suore di santa Patrizia sono trasferite al monastero di san Gregorio Armeno e portano con loro le spoglie della santa che, rivestite di cera, sono ancora oggi custodite nella cappella laterale della monumentale chiesa del monastero, in un’urna decorata di oro, argento e pietre preziose. Santa Patrizia è oggi venerata da moltissimi devoti, che umilmente s’inginocchiano dinanzi alla sacra spoglia e sono testimoni della liquefazione del sangue, fluito dalla bocca un centinaio di anni dopo la sua morte. Secondo una leggenda, si vuole che un cavaliere di Roma, da tempo prostrato da atroci sofferenze, sia andato a pregare sulla tomba di santa Patrizia (morta cento anni prima) e dopo ferventi implorazioni sia stato guarito. Desiderando di stare vicino alle reliquie della santa, ottiene il permesso di trascorrere la notte in preghiera nella chiesa. Quando si ritrova solo, in un eccesso di venerazione dischiude l’urna ed estirpa un dente dall’alveolo arido. Subito vede del sangue che sgorga come da un corpo vivo. Al mattino viene trovato svenuto. Le Patriziane, accorse, constatano che dalle gengive della santa esce a fiotti sangue caldo, che viene subito raccolto e messo in due ampolle, religiosamente custodite fino ai nostri giorni. Le prime notizie della liquefazione del sangue sono incerte: per alcuni studiosi risalgono al 1510, per altri al 1645. Tale leggenda consente di analizzare il simbolismo del sangue in relazione al corpo e al miracolo, ovvero il linguaggio con cui il fenomeno viene letto e de-codificato. La simbologia del sangue propone da sempre simboli contraddittori, fortemente ambivalenti in cui ogni elemento contiene l’esatto contrario. Il sangue è la vita, eppure l’effusione di sangue rappresenta la morte. Purifica e contamina. Racchiude simultaneamente purezza e impurità: se è rosso vivo, è segno di santità; se è scuro è contaminante e infetto; è un doppio vita/morte ed è presente in modo arcaico in molte culture. Così Luigi Maria Lombardi Satriani: «La cultura di ogni società tende a potenziare il sangue quale principium vitae e a esorcizzare il sangue quale principium mortis tendendo a costituire una semiologia del sangue». La liquefazione rituale ha una cadenza quasi da ciclo mestruale; il legame tra ciclo e versamento di sangue maschile è frequente in molte società; in alcune culture rivela una sorta di desiderio maschile di mestruare, ossia appropriarsi della facoltà di generare. L’espulsione del sangue è espulsione del male. Il santo che versa il sangue è così sostituto simbolico della società. Con il rito vanno via anche i mali: ecco perché, se il miracolo non avviene, il presagio è negativo. Nel miracolo conta il valore simbolico: gli effetti sortiti sulla società. Nelle culture subalterne, il linguaggio del sangue e il simbolismo del corpo sono punti centrali, come sottolinea Mariella Combi: «In qualunque società, il corpo così come è vissuto dal singolo individuo è impegnato dal simbolismo, dalle reazioni ai rapporti interpersonali e dalle emozioni. È un corpo su cui il sociale con i suoi riti e le sue norme, la magia, la scienza e l’esperienza personale lasciano un segno». Il rito, quindi, trasforma il corpo in linguaggio, in forma espressiva, in luogo comunicativo: il sangue solidificato nel reliquario – simbolo di morte – nell’attimo della liquefazione muta di segno e diventa tramite di una nuova vita. La raffigurazione della santa martorizzata, che reitera cadenzialmente il proprio sacrificio, acquisisce la funzione di ri-costruire l’identità collettiva attraverso un rito metastorico in cui la compartecipazione è un momento topico proprio dell’ambito collettivo della sacralità più arcaica.