Il palcoscenico del Teatro Ariston non è mai stato una buona passerella per la moda. Per quanto espressione dell’italianità che si dà al canto, d’autore o meno che sia, non ha mai legato con quell’altra italianità che si dà alla moda e che è diventa una delle protagoniste, oltre che degli armadi di tutto il modo, dei red carpet e dei palcoscenici dove si svolgono i maggiori eventi dello spettacolo mondiale.

Sanremo è un po’ come le piazze e i marciapiedi di Milano che sono nella città capitale del design mondiale e, finora, nessuno si è occupato dell’arredo urbano, né i designer né le amministrazioni. Così a Sanremo, manifestazione canora del Paese della moda, nessuno si cura molto dei vestiti, né i cantanti né i direttori artistici. Per non parlare del décor che sarebbe meglio lasciare solo ai fiori, abbandonando improbabili scenografie che si credono futuristiche perché sono illuminate con i neon. Dopotutto, l’Italia è anche il Paese di grandi scenografi da premio Oscar. Ma questo è lo spettacolo estetico della televisione, e non sembra che il nuovo corso della Rai possa salvarci da tale offesa al senso estetico nazionale.

Molta parte della responsabilità dello scollamento tra il palcoscenico e la moda è degli stessi cantanti e di molte delle presentatrici e presentatori che, diversamente da quanto succede con i loro colleghi americani, inglesi e perfino francesi, non hanno quel portamento che può esaltare il loro vestito, un handicap che si definisce nell’espressione «non reggono il palcoscenico». Donne e uomini, quindi, accomunati dallo stesso destino: non hanno il senso del glamour. O ne hanno paura. Molti anni fa, mi è capitato che un gruppo musicale mi chiedesse, non per ragioni professionali ma amichevoli, un consiglio su che cosa indossare nella tre giorni del festival. Con l’entusiasmo giovanile di un rientro dagli studi all’estero e vista la loro caratteristica musicale, ho suggerito per gli uomini dei completi della stilista inglese Katarine Hammnet in colori diversi per le diverse serate e per la cantante un tubino nero della stessa stilista al quale un accessorio di Cinzia Ruggeri, esponente della moda italiana dello studio Alchimia di Alessandro Mendini, avrebbe dato il tocco di diversità per ogni serata.

Alla fine, gli strumentisti si sono presentati in jeans e maglietta e la cantante con un improbabile caftano, un look che negava la raffinatezza e la modernità della musica e della voce. Hanno avuto paura di sembrare «troppo fashion», hanno detto. Ecco, generalmente il problema degli italiani che vanno a Sanremo: si spaventa si entrare nelle case degli italiani con abiti «alla moda», contrariamente allo show biz hollywoodiano dove l’abito diventa il protagonista dell’apparizione dei divi dello spettacolo, attrici, cantanti e artisti di contorno compresi.

Eppure, non sono mancati esempi di grande moda sul palco dell’Ariston. Ci si ricorda di una Patty Pravo con un abito di lamé argentato di Gianni Versace (1984, Per una bambola) di una Mia Martini in Giorgio Armani (1989, Almeno tu nell’universo) e persino di una Milly Carlucci presentatrice nel 1993 con un abito di Valentino, lo stesso che poi, nel 2000, ha indossato Julia Roberts agli Academy Awards per ritirare la statuetta d’oro per Erin Brockvich, aprendo la strada alla moda del vintage, e anche di un’ultima Milva con un Gianfranco Ferré spettacolare del 2007. Casi in cui abito, musica e personalità della cantante apparivano in una sintonia inusuale per una scena italiana.

10vissinSANREMOMIAMARTINI

Purtroppo, i cattivi ricordi annullano quelli belli e non si può non andare al 1997 con una Valeria Marini presentatrice molto impacciata al microfono ma anche nei vestiti di Ferré, di una Gabriella Carlucci presentatrice solo delle sue forme in abiti di Gattinoni, stilista romano famoso soprattutto in Rai per le tante amicizie locali. Come solo a Roma e in Rai era famoso Gay Mattiolo, lo stilista che ha seriamente messo in pericolo il senso estetico degli italiani vestendo Raffaella Carrà nel 2001 e, soprattutto, Antonella Clerici nel 2005, le cui torte trasformate in abiti di voile e tulle hanno giustificato, purtroppo, l’ironia greve del co-presentatore Paolo Bonolis, a sua volta impinguinato in uno smoking di taglia troppo comoda: lo si notava dalle pieghe sulle spalle e sulle maniche.

10vissinSANREMOPATTYPRAVO

Il problema, comunque, non è l’abito o chi lo disegna. La prova viene dal confronto tra italiani e stranieri che si sono presentati sul palco con gli abiti degli stessi marchi. Per esempio, non è bastato un abito di Dolce & Gabbana a salvare il glamour assente di Simona Ventura (2004) ma quando sul palco è arrivata Tina Turner con un mini abito degli stessi stilisti il confronto era impietoso. Il che dimostra che più che l’abito può il portamento. E che «reggere il palco» è un’attitudine della professionalità, non del guardaroba.