Ridisegnare la sanità territoriale è uno degli imperativi del Pnrr. Il Piano mette a disposizione dell’obiettivo circa 9 miliardi di euro. Il problema è cosa farne, soprattutto per quanto riguarda una componente nevralgica dell’assistenza di prossimità, i medici di famiglia. Sono quelli che hanno pagato di più in termini di vite umane, con circa centoquaranta medici morti per Covid. Oltre al loro coraggio, però, il dato segnala l’inadeguatezza della sanità di base alle prese con lo tsunami, dall’assenza di protocolli alla scarsità di mascherine e tute. Dovette prenderne atto lo stesso ministero della Salute, il 9 marzo 2020, disponendo che l’assistenza domiciliare ai contagiati fosse affidata alle «Unità sanitarie di continuità assistenziale» (Usca) poi rivelatesi pure insufficienti.

Ripristinare la capacità di risposta della sanità territoriale passa dunque dalla revisione del ruolo dei medici di base. Ma gli stessi medici si dividono tra due concezioni opposte del ruolo del dottore.

Lo scontro sta emergendo nel corso della trattativa per il rinnovo dell’Accordo collettivo nazionale tra dottori e regioni, la convenzione che regola le prestazioni che gli enti locali “comprano” dai medici di famiglia in regime di libera professione. Di solito si tratta di una vicenda per addetti ai lavori. Pandemia e Pnrr, tuttavia, ne fanno oggi un argomento di interesse molto più ampio.

L’ultima bozza dell’accordo contiene infatti i primi contorni della futura sanità territoriale basata sulle «Unità complesse di cure primarie» (Uccp): strutture che ospiterebbero più medici di base, infermieri e segreteria in grado di tenere aperti ambulatori e servizi diagnostici di base con continuità. Una piccola rivoluzione rispetto ai medici di famiglia tradizionali, i cui studi sono disponibili solo per poche ore al giorno e sprovvisti di strumentazione. Alzi la mano chi, in tempo di Covid, non ha temuto di non sapere a chi rivolgersi in caso di emergenza, con ospedali oberati e ambulanze introvabili. L’evoluzione era prevista già dalla legge Balduzzi sin dal 2012 ma era rimasta in gran parte incompiuta. Siccome il Pnrr prevede la creazione di «Case della comunità» che ricordano molto da vicino le Uccp, stavolta la trasformazione potrebbe essere alle porte.

Il prossimo incontro tra le regioni e le rappresentanze dei medici è previsto per domani. Ma tutte le sigle concordano nel respingere la bozza. Da un lato, dichiarano l’impossibilità di discutere di questi temi nell’imminenza della presentazione dettagliata del Pnrr sulla salute. Qualunque firma potrebbe rivelarsi carta straccia di fronte a un atto ben più rilevante di un accordo sindacale e con un impatto economico inedito per la nostra sanità.

Ma nel merito le posizioni si dividono nettamente. La maggioranza dei medici di base è gelosa della propria autonomia professionale e teme che le Uccp trasformino il medico di famiglia da libero professionista a lavoratore subordinato di un’organizzazione. È questa la posizione della Fimmg, sigla a cui è iscritta circa la metà dei medici di base: «Si mettono in discussione elementi fondanti la nostra professione, quali la scelta fiduciaria (del dottore da parte dell’assistito, ndr) e l’autonomia organizzativa su cui la categoria non è disposta ad alcun compromesso, che metterebbe in pericolo la tenuta stessa del Ssn», ha spiegato a Quotidiano Sanità il segretario Silvestro Scotti. La Fimmg difende l’assetto tradizionale, in cui il medico è un libero professionista con milletrecento assistiti-clienti in media e una notevole indipendenza rispetto a distretti, Asl e ospedali. È un modello che però ha mostrato tutti i suoi limiti durante la pandemia, di fronte a un virus che richiedeva un intervento coordinato da parte di tutto il sistema, dal medico di base alla terapia intensiva. Lo dimostra il proliferare di gruppi di medici che, riempiendo il vuoto di lasciato da Usca e medici di base, ancora oggi assistono migliaia di persone prescrivendo «terapie domiciliari» di dubbio fondamento scientifico.

Su una posizione radicalmente diversa i medici rappresentati dalla Fp della Cgil. «Noi proponiamo che il medico di base abbia un rapporto di lavoro di dipendenza con Servizio sanitario nazionale con tutele e diritti dei medici ospedalieri, ma al di là della dimensione contrattuale chiediamo una norma stringente che porti i medici di base a lavorare nelle case della comunità» spiega al manifesto il segretario Andrea Filippi. «Il rapporto “fiduciario” tra paziente e medico di base spesso si rivela un rapporto “privatistico”. Noi siamo favorevoli al rapporto fiduciario, ma tra il paziente e il servizio sanitario nazionale: l’equipe multiprofessionale deve rappresentare la cellula vitale del Sistema sanitario nazionale per superare la frammentazione causa di disservizi e spreco di risorse».