«La letteratura «gay», e in particolare quella degli autori ancora vivi, è un grande cimitero dove scrittori assolutamente incompatibili, se non per i loro supposti desideri sessuali, sono gettati insieme in una sezione ben lontana da quella, molto più frequentata, dei valori familiari», scrive Gore Vidal, con la consueta, aristocratica arguzia, aggiungendo: «James Purdy, che dovrebbe giacere al fianco di William Faulkner nel tetro angolo gotico del cimitero della letteratura americana, è stato invece sepolto con degli estranei».

Senza necessariamente sconfessare le parole di Vidal, la cui passione per i giudizi tranchant è ben nota, nell’avvicinarsi a uno scrittore ancora poco conosciuto come Purdy, è forse meglio tenere a mente la definizione che lui stesso diede della propria opera: «un fiume sotterraneo che scorre, spesso sconosciuto, attraverso il paesaggio americano».

In questo paragone c’è tutta l’intenzione, da parte di un autore coscientemente al margine, di rivendicare l’eccentricità ricercata e oscura della propria scrittura. Con una carriera dedicata a ogni possibile deviazione dalle normatività imposta della cultura statunitense (e specialmente quella degli anni Venti e Trenta in cui è cresciuto), è naturale che la scrittura di Purdy, intrinsecamente queer (nel senso più ampio e liberatorio possibile che il termine veicola), tenda ad acquisire anche un carattere gotico.

Il genere, del resto, nasce come risposta angosciata agli imperativi del razionalismo, e dà voce alla dissociazione dell’uomo tanto dal mondo che abita quanto dalla sua stessa psiche. Da questo punto di vista, un’opera interamente focalizzata sui reietti di ogni tipo non può che riportare alla luce il sottobosco di paure, dubbi e violenza incarnato da queste figure.

In Come in una tomba (traduzione di Maria Pia Tosti Croce, Racconti edizioni, pp. 130, € 13,00) gli strumenti della scrittura di Purdy, affilati e in bella vista, servono la scrittura di un romanzo visionario che è anche un enigma bizzarro.
Garnet Montrose, reduce del Vietnam sfigurato in maniera orrenda e surreale, vive nella villa neoclassica dei suoi defunti genitori, ottimati della Virginia, con due servitori: il ragazzino afroamericano Quintus, che legge ininterrottamente dai ponderosi volumi della biblioteca per intrattenerlo, e il misterioso Daventry, incaricato di consegnare pompose e deliranti lettere d’amore alla vicina, la vedova Rance.

Da queste premesse, Purdy snoda un racconto sanguigno che si sviluppa interamente in una dimensione simbolica, e che, grazie anche alla generosa quantità di droghe assunte dal protagonista per lenire i dolori del corpo martoriato, si fa più onirico e scollato man mano che procede. Nel vortice talvolta incomprensibile della narrazione, l’autore riesce comunque commentare, in maniera più o meno diretta, i vari temi dibattuti all’epoca (il romanzo è stato pubblicato per la prima volta nel 1975). Le asperità della guerra appena conclusa occupano un posto centrale, ribadite nei continui accenni allo sfacelo delle carni di Montrose, pronte a staccarsi dalle ossa a ogni movimento.

Ma c’è spazio anche per il razzismo e l’arroganza dell’America bianca, e per la difficoltà di vivere apertamente la propria omosessualità, rappresentata nel simbolo struggente di una sala da ballo in rovina nella quale il protagonista si reca periodicamente e in gran segreto. Il tutto affrontato attraverso un linguaggio non di rado profetico, puntellato da riferimenti intertestuali continui alla Bibbia e ai classici, ma venato anche di umorismo nero, erotismo spicciolo e riferimenti alla musica popolare.