Le tanto attese elezioni in Bangladesh, in un clima militarizzato con 600mila tra soldati e poliziotti a monitorare le operazioni di voto e internet sospeso, si sono chiuse con due bilanci attesi. Il primo è quello di sangue: almeno 17 morti ai seggi in diverse zone del paese, di meno rispetto ai 400 delle elezioni del 2014 ma comunque un numero che non combacia con le parole celebranti del ministro dell’Informazione, Abdul Malik: il processo elettorale, ha detto alla chiusura dei seggi (alla mezzanotte di domenica) è stato «pacifico e di successo».

L’altro bilancio rispettato è stato quello della riconferma della premier Sheikh Hasina. Che ha sbancato: la Grand Alliance, la coalizione guidata dalla Awami Leaugue, il partito di governo, ha portato a casa 288 seggi su 300 disponibili (gli altri 50 che compongono il parlamento sono destinati a donne e distribuiti in base ai risultati elettorali).

Così almeno è quanto ha fatto sapere ieri la Commissione elettorale. Diversa la versione delle opposizioni che ieri parlavano di brogli e intimidazioni e accusavano la Commissione di parzialità: rigettano i risultati e chiedono di tornare alle urne. A dare in qualche modo la misura della parzialità di Stato è il mantenimento dietro le sbarre della principale avversaria della Awami League, Khaleda Zia, leader del partito di opposizione Bnp in prigione dallo scorso febbraio.

Di certo c’è il pugno di ferro che la premier, figlia di Sheikh Mujibur Rahman, che rese il paese indipendente dal Pakistan nel 1971, esercita sul Bangladesh. La libertà di espressione e i diritti civili hanno visto un progressivo restringimento dopo la sua riconferma, quattro anni fa. Dalla sua però ha portato in dote alla popolazione il successo della crescita economica interna.