«C’avevo dodici o tredici anni, io e Mario Musella eravamo dei bravi ballerini e andavamo alle feste di paese. Poi un giorno ho scoperto lo strumento che ha cambiato per sempre la mia vita, il sassofono». Parole di James Senese, l’entusiasmante santone della musica napoletana, il pioniere delle contaminazioni jazz-blues- rock, una potente carica d’energia dai tempi degli Showmen a quelli di Pino Daniele, celebrato da un documentario James, di Andrea Della Monica, 65 minuti di lunghezza, passato alle Giornate Degli Autori.

AL DI LÀ di svariate avventure cinematografiche (No, grazie, il caffè mi rende nervoso, 1982; Zora, la vampira, 2000; Passione, 2010; Una festa esagerata, 2018) stavolta il musicista e cantante si è lasciato coinvolgere in un racconto in prima persona con tanto spazio ai brani e alle esibizioni live mettendo da parte il proverbiale carattere ruvido e scontroso. Figlio della guerra, nato nero nel 1945, registrato all’anagrafe come Gaetano in omaggio al nonno, chiamato James, il nome del padre, soldato americano tornato presto a casa lasciando sola la madre napoletana. Sin da piccolo ha dovuto combattere pregiudizi d’ogni genere, razziali e culturali. Cresciuto a Miano, nella periferia nord della grande città, in quella zona agricola di canapa e ortaggi che oggi è solo emarginazione e cemento.

UNA DIVERSITÀ testimoniata anche dalla sua figura carismatica, alto e magro, con la massa rotonda di capelli crespi che incorniciano il viso, alla Jimi Hendrix anche se studiava John Coltrane e Miles Davis, dalla mattina alla sera, cercando un suo linguaggio originale. «Nella musica ho condensato tutte le mie angosce, le mie paure, soffiandole via, letteralmente. Ho capito che potevo liberarmi di tutti i problemi, che potevo scacciare i timori che attanagliavano la mia anima. Sono di famiglia modesta, per non dire povera. Suonando decisi che avrei voluto parlare degli ultimi, di quelli che non ce la fanno, di quella parte di popolo che vive a testa bassa per portare a casa la pagnotta; ma avrei anche voluto parlare di amore e rispetto per le persone».

Nacquero così Campagna, A gente ‘e Bucciano, Malasorte, ‘O nonno mio, tutte composizioni personali scritte in napoletano viscerale, con l’aiuto di Franco Del Prete (recentemente scomparso), il batterista straordinario, compagno di lavoro di una vita che fa da contraltare nelle interviste video («Ci ho messo degli anni per capire quello che James voleva dire. È zen, sintetizza la sua filosofia in certe frasi. La verità? Devi studiare a lungo le note e poi ti devi buttare senza paracadute. Se hai qualcosa dentro, riesci a volare»).

Disseminate tra improvvisazioni incendiarie e ballate inebrianti, una lunga contrattazione con un rivenditore di strumenti musicali e un brindisi al ristorante con gli amici di sempre, Luciano Maglioccola e Rino Calabritto, ricordando le parole dell’esordio di Napoli Centrale («dobbiamo scassare tutto, fare una musica nera che in Italia non ci sta, eseguire brani che durano 10-12 minuti»), il gruppo che ancora oggi l’accompagna, con elementi più giovani.

CON LA SUA impareggiabile coerenza, ‘O Jé (come lo chiamava Pino, amico della sua stagione più fortunata, che spesso gli appare in sogno) rivendica la sua doppia identità, sangue nero e anima napoletana, suonando la poesia del jazz rivitalizzata con parte della tradizione popolare, con uno stile inconfondibile dalla vocalità aspra, di grande espressività, molto attuale. Una radicalità tollerante, con le cicatrici del dolore e della gioia, attraversate in cinquant’anni di carriera.