Con nuova traduzione e apparato di note ottimamente redatto, escono da Adelphi tutti gli scritti di Simone Weil su Omero, Platone, i pitagorici e i tragici, a cura di Maria Concetta Sala e Giancarlo Gaeta (La rivelazione greca, «Biblioteca» Adelphi, pp. 489, euro 28,00). Esisteva già una versione italiana di alcuni di questi scritti, La Grecia e le intuizioni pre-cristiane, pubblicata da Borla nel 1967. Mentre però quest’ultima traduceva sia nel titolo che nei contenuti le due raccolte postume Intuitions pre-chrétiennes (pubblicate da Padre Perrin nel 1951) e La source grécque (voluta dai familiari di Weil e da Albert Camus nel 1953), l’edizione Adelphi si basa sul lavoro che dal 1988 sta portando avanti l’équipe di studiosi guidata prima da André A. Devaux, poi da Florence de Lussy e Robert Chenavier: la pubblicazione sistematica di tutti gli scritti della pensatrice francese. Il lettore ha la possibilità di seguire così, in ordine cronologico, la riflessione di Weil sui classici, e di capire come, e da quali fonti, il suo pensiero prenda forma negli anni a ridosso della seconda guerra mondiale. È infatti in questo periodo, dal 1938 alla morte, avvenuta nel 1943, che matura, a partire dalle riflessioni sulla sventura, la forza e la violenza, la svolta mistica, o meglio, la torsione originalissima che la farà avvicinare al cristianesimo e alla conversione. Non è certo contingente la successione di questi due momenti: già negli scritti sulla guerra, pubblicati tra il ’33 e il ’43 in varie riviste della gauche francese (e raccolti in italiano in Sulla Guerra, Pratiche 1993), Simone Weil analizza lucidamente il corto circuito nichilista su cui le premesse guerrafondaie dei grandi apparati ideologici del Novecento si fondano e si giustificano. La grandezza e l’importanza dei conflitti si desume non tanto dagli obbiettivi che una guerra si prefigge (essi sono, afferma Weil nel celebre saggio «Non ricominciamo la guerra di Troia» del 1938, straordinariamente assenti dagli incipienti conflitti sul continente europeo) ma dal numero di cadaveri che produrrà.

Per riflettere sensatamente sulla violenza nel momento in cui essa sta per travolgere l’Europa e il mondo, pare dirci Simone Weil, è necessario andare all’origine della civiltà occidentale, a quell’unica fonte di conoscenza che la nostra cultura deve riconoscere come propria, non certo per esaltarne tratti di presunta superiorità ma per capire ciò che al suo inizio ne ha caratterizzato i tratti essenziali o, come direbbe lei, «spirituali». È come se la filosofa francese volesse rendere esplicito ciò che nei testi classici resta pericolosamente implicito, soffocato dagli specialismi e dalla filologia, tendenziosamente utilizzato – non solo dai tedeschi – a sigillo definitivo di un’indiscutibile grandezza dell’occidente. Forse anche per questo motivo decide, durante l’esperienza del lavoro in fabbrica a Rosiéres, di trascrivere per gli operai le tragedie sofoclee Antigone ed Elettra, ritenendo che siano «molto più toccanti per la gente comune, per coloro che sanno cos’è lottare e soffrire, piuttosto che per chi ha passato la vita tra le quattro mura di una biblioteca».

Niente di eroico o grandioso – nel senso banale del termine – è presente nella rivelazione greca, ma la consapevolezza dell’umana sventura e il tentativo di liberarsi da essa attraverso la conoscenza, il contatto mistico con il divino. Omero e Platone rappresentano i due poli entro i quali tale percorso di consapevolezza e di ascesa prende forma. In Omero, a cui è dedicato lo straordinario saggio «L’Iliade, o il poema della forza» (qui in nuova traduzione, leggermente differente rispetto a quella di Cristina Campo già apparsa ne La Grecia e le intuizioni pre-cristiane), Weil rintraccia il vero spirito greco, intriso di umanità e compassione, equanime rispetto a vincitori e vinti, tutti ugualmente sottomessi al potere reificante della forza. La violenza della battaglia, la brutalità dello scontro, l’ira dei guerrieri e la loro sete di sangue non sono da Omero celebrati, bensì raccontati con un realismo che ne esalta, per scongiurarla, la dimensione animale, naturale, necessaria. La forza che nei combattimenti tra greci e troiani si manifesta non è indice di coraggio ed eroismo, bensì un’entità che sovrasta e possiede i mortali, e che non può che «ridurli a cose», sia che essi agiscano o subiscano la violenza. Se il vinto è ridotto a cosa perché trasformato dal vincitore in schiavo o in cadavere, anche il vincitore è sottoposto alla forza reificante della violenza perché esercitandola egli «muta in pietra», «perde l’intera vita interiore».

L’insuperata consapevolezza greca per la fragilità e la finitezza esclusivamente umane – non vi partecipano infatti gli dèi, gli immortali, capricciosi registi-spettatori di uno spettacolo che si nutre delle disgrazie umane –, non poteva che rappresentarsi nella forma di uno scontro violento, che la poesia, con i suoi accenti, «rari e di breve durata», su ciò che alla violenza reificante sfugge, sembra voler esorcizzare. Paradossalmente, dunque, si potrebbe dire, seguendo la lettura di Weil, che se la violenza riduce gli uomini a cose, la poesia omerica – con la sua imparzialità su vincitori e vinti, con la sua predilezione per gli sconfitti – tenta costantemente di ri-trasformare quelle cose senz’anima in uomini. È singolare che una simile visione dell’epica omerica – una visione che non celebra i fasti e i trionfi degli eroi greci, come una certa visione virilista della grecità aveva contribuito a rafforzare e diffondere in Europa, da Nietzsche in poi – faccia convergere, con le dovute differenze, Simone Weil, Hannah Arendt e Rachel Bespaloff. Una piccola schiera di pensatrici di origine ebraica che rileggono, attorno agli anni bui del Novecento in Europa, Omero con occhi critici verso il canone occidentale (e maschile) della tradizione, è più di una coincidenza e dovrebbe far riflettere.

Da Omero a Platone, la svolta mistica si compie, nel percorso weiliano, attraverso una lettura del filosofo ateniese che ne sottolinea la valenza «soprannaturale», termine a cui spesso Weil ricorre per nominare ciò che alla crudezza e circolarità del divenire biologico e naturale si sottrae, indicando una via ascendente che l’anima può percorrere per ritrovare la propria origine celeste. Platone è, secondo Weil, «un autentico mistico, e addirittura il padre della mistica occidentale». Insistendo sulla necessità di ben governare l’anima, al fine di attingere alla bellezza del Bene – che non sarebbe altro che un altro nome per Dio –, il filosofo dice ciò che la tradizione orfica, misterica e pitagorica avevano probabilmente già elaborato, ma tenuto segreto, e ciò che più tardi, con altri termini e secondo un altro registro, dirà il cristianesimo. Il divino è, secondo Weil, trascendenza assoluta e allo stesso tempo perfezione geometrica che si manifesta nel mondo attraverso la proporzione, e che i greci – i pitagorici prima ancora di Platone – scoprono, con stupore, nella natura. È la bellezza cosmologica che permette all’anima imperfetta dell’uomo di entrare in contatto con Dio, e quindi è «singolarissimo» che la Grecia abbia avuto «una mistica nella quale la contemplazione mistica si fondava sulle relazioni matematiche».

La bellezza del divino, la «verità come bene», che agli umani è dato esperire, come sostiene Platone nel Simposio, prima con i sensi e poi con il pensiero, è l’unico orizzonte di salvezza soprannaturale che permette agli uomini di scongiurare la sottomissione alla forza e alla violenza. Non si dà però mistica senza consapevolezza anche ‘politica’ degli ultimi, della loro sofferenza e sventura. Il circolo da Omero a Platone si chiude, paradossalmente, con Cristo. L’umanità di cui Omero celebra la finitezza e la fragilità, ritorna nelle riflessioni mistiche come possibilità di esperire l’amore divino solo attraverso l’amore per l’altro, per il simile, per colui o colei che è umanamente condannato/a alla sventura, alla sofferenza, alla morte, ma che resta per noi l’unica misura di una possibile condivisione, di ciò che Weil chiama «amore». Come lei stessa afferma nei Quaderni, «amare Dio attraverso la sventura altrui è la compassione del prossimo» (II, 226): forse proprio quel sentimento lucido di sventura che porta a compiangere anche il nemico, che lei vede mirabilmente rappresentato nell’epica di Omero, è l’anello che collega le intuizioni «pre-cristiane» con l’amore per gli ultimi che il divino fattosi carne, nella figura di Gesù, ha proclamato senza pudore al mondo.