Un film pieno di segni. Proprio come le macchine che solcano il deserto a folle velocità, costruite con pezzi provenienti da altre vetture e oggetti. George Miller ha disseminato nel quarto capitolo della saga di Max il pazzo il precipitato dei segni della cultura pop del ventesimo secolo riprocessandoli come se si trattasse di un’operazione di archeologia retro-futurista. Come se dall’altra parte dello spettro del digitale, la ferraglia e la ruggine (che non dorme mai, per citare Neil Young) reclamassero, ancora una volta, il proprio diritto di cittadinanza nell’immaginario collettivo.

Polvere, ruote, fuoco, metallo: la strada della furia di George Miller è solcata dallo spettro di Hardware come se a riprocessarlo fosse stata la Mutoid Waste Company cui il collettivo Zimmerfrei ha dedicato l’ottimo film Hometown – Mutonia. George Miller non utilizza l’amplissimo spettro di stratificazione dei segni per mettere in piedi una sorta di paradiso artificiale nerd dove la caccia alla citazione diventa il principale piacere/racconto del film. In Fury Road i riferimenti alle culture che permeano il film è al tempo stesso meccanico e organico. L’ombra lunghissima di Go Nagai e in particolare del suo Violence Jack domina come a volere rivendicare una paternità segreta. L’avanzata sulla linea dell’orizzonte delle macchine del mucchio selvaggio è un motivo visivo ricorrente del mangaka, senza contare l’avamposto di Citadel che rievoca la Slum Town del fumetto mentre Immortan Joe diventa una versione da incubo di Slum King.

Dall’altra parte, Ken il guerriero, di Tetsuo Hara e Buronson, manga discendente in linea diretta da Interceptor: il guerriero della strada, è a sua volta esploso nella solitudine totale del protagonista che a stento riesce ormai a grugnire il suo nome.

La centralità sociale del metallo, il suo essere costantemente riassemblato, si presenta come una reinvenzione della microsocietà dei Sabbipodi (diventati poi Predoni Tusken) del primo Guerre stellari. Il riciclaggio, infatti, dei corpi, dei fluidi, delle materie prime e del metallo, trova un corrispettivo preciso nella reinvenzione dei segni. La posse che bracca Furiosa assomiglia a una specie di Hellfest su ruote. Non a caso i membri della tribù di Immortan Joe sembrano cloni degli Slipknot (le teste aculeate) e della famiglia di Leatherface (compare infatti anche una sega elettrica). Mentre il chitarrista (il cui strumento lancia fiamme come la chitarra di Ace Frehley dei Kiss) che accompagna con il suo drone metal l’avanzata della carovana di Immortan Joe (una delle invenzioni più entusiasmanti del film) sembra una geniale ibridazione di Buckethead (musicista vicino all’aerea Material e Bill Laswell) e del protagonista del manga Detroit Rock City scritto da Kiminori Wakasugi (impossibile non ricordare i Dimmu Borgir).

E cosa ci fa la citazione letterale di Big Bird Cage di Jack Hill in Mad Max? Giunto alla fine del cinema, ossia di una certa idea di cinema, George Miller, in assoluta sintonia con l’umanità che popola il suo film, ricicla e riassembla: alla velocità della luce. I materiali, scelti in base al loro valore d’uso e non per il coefficiente cult, sono a loro volta il segno di un progetto di rifondazione sociale. Giunto alla fine del ciclo del consumo, non resta che riciclare i segni del consumo stesso. E non a caso la vita, i semi custoditi da una delle anziane, non sono riconoscibili come segni, come un’appartenenza, ma solo come un progetto. Una speranza. Come dire che alla fine del segno non può che esserci il progetto di un altro mondo.