Sicuramente è uno spettacolo al di fuori della norma (o delle «medie» che ormai impigriscono le sale). Può disorientare qualcuno tra gli spettatori, ma ne ha affascinato molti altri. Innanzitutto per la strana coppia in scena: un intellettuale impegnato e sincero, sempre a rischio dell’impopolarità per quanto denuncia, come Roberto Saviano, e una delle personalità più ricche ed esplosive della cultura teatrale napoletana di oggi, Mimmo Borrelli. Condividono la passione civile, l’amore per Napoli (anche senza nascondersene gli «orrori»), e perfino l’età: sono nati entrambi nel 1979. Borrelli, autore, attore e regista, possiede l’arte sulfurea della parola e della visione: la decisione di lavorare assieme, per entrambi, è derivata da reciproca attrazione per l’operato l’uno dell’altro, dove il piacere dell’arte va a coniugarsi con la «moralità», come si sarebbe detto un tempo, di cui Saviano è portatore collettivo.

Ma l’elemento più curioso di questa avventura teatrale, è l’oggetto, anzi il protagonista assoluto del racconto, ovvero San Gennaro, che spiega così il titolo hard della serata: Sanghenapule (in scena fino al 17 aprile alla sala Grassi del Piccolo Teatro in via Rovello), che non si riferisce a un fattaccio da sceneggiata, ma al contenuto delle sacre ampolle di cui ogni anno si ripete implacabilmente la liquefazione.

In una sorta di rigorosa divisione dei ruoli, che non inficia la teatralità della serata, solo ne scandisce i tempi in maniera diversa dal solito, Saviano fa il proprio mestiere di narratore, con una grazia e un’autorevolezza di grande spessore (imparagonabili con i duetti a cappella con Fazio in tv). Da parte sua Borrelli fa l’interprete di quelle storie affascinanti e tremende, che partono dalla mitologia, si elettrizzano di paganesimo in epoca proto cristiana e con assoluta naturalezza arrivano fino ai giorni nostri. Immagini e personaggi si succedono come le atmosfere che sono segnatamente splatter nei fatti della biografia e del martirio del santo protettore di Napoli, il cui ruolo per altro diviene quello di gigante buono a confronto con la potenza demoniaca del Vesuvio con i suoi boati, le sue eruzioni e le discendenze che vanno a rendere bullicante di pericoli tutta l’area da Bacoli a Pozzuoli. Ma con la stessa «naturalezza» narrativa, sono poi i migranti, di ieri come di oggi, a farsi protagonisti, con il loro immenso portato positivo.

E in un altro momento, a prendersi la scena è Domenico Cirillo, medico e patriota, martire della repubblica giacobina del 1799. Senza parlare esplicitamente del populismo sanfedista che lo condannò a morte, ma mostrando continuamente di Napoli le contraddizioni tremende, che solo san Gennaro si perita ciclicamente di «risolvere», davanti ad ogni emergenza.Dalle parole di Saviano, piane e significative, è la musica, live ed elettronica, di Antonio Della Ragione e Gianluca Catuogno, o il ruotare di un pezzo della scenografia di Luigi Ferrigno (ruderi di templi, di sacri paramenti e di pensiero) a portare alle visioni cui dà corpo e scintillìo Mimmo Borrelli.

Nella lingua napoletana reinventata con innesti flegrei, o direttamente nel latino maccheronico e devozionale che di Gennaro Ianuarius («un santo che si chiama per cognome») descrive il potere salvifico e il culto sterminato, ma anche la bonaria umanità. La fisicità dell’attore e il pensiero dello scrittore costruiscono una solida rete narrativa e civile, un flusso coerente di informazione ed emozione. Una esperienza, come si diceva all’inizio davvero rara, voluta e costruita dal Piccolo Teatro come un segnale esemplare. Cui ha risposto una gran folla di nomi anche celebri, anche se il gruppo sociale più vistoso restava comunque quello dei molti agenti a guardia di Saviano.