Sandrine Bakayoko è morta ufficialmente «per cause naturali» nel bagno delle donne. Così nell’ex base missilistica di Conetta ieri mattina ci si preoccupava soprattutto d’altro.

Un centinaio di profughi trasferiti in bus verso l’Emilia, come da disposizioni del Viminale. La Procura di Venezia concentrata su danneggiamento, violenza privata e sequestro di persona come ipotesi di reato per la rivolta dei profughi. Forze dell’ordine di nuovo schierate a controllare la situazione prima e dopo il «trasloco», la visita dei parlamentari, l’arrivo dei furgoni con i pasti.

LO STAFF DELLA COOP Ecofficina sotto pressione a causa dei troppi riflettori accesi su una gestione tutt’altro che impeccabile. Ma Sandrine è già diventata il simbolo di questa specie di lager ai margini della piccola frazione di Cona, persa nella nebbia gelida della campagna veneziana. I profughi ivoriani non la dimenticano né accettano il modo in cui ha perso la vita, il futuro, le speranze.

Sandrine, 25 anni, diplomata in informatica, un figlio di 8 rimasto in Costa d’Avorio, si era imbarcata quest’estate con il compagno nelle coste libiche e da settembre a Conetta aspettavano di essere riconosciuti come rifugiati. C’è chi dice che abbia interrotto una gravidanza, ma tutte le testimonianze raccolte all’interno della tendopoli sono concordi nel descriverla sofferente da giorni. Sandrine contava di ottenere il «visto» dell’Italia che le consentisse di andare a Milano per lavorare come parrucchiera. Intanto, si esercitava con le altre poche donne fra gli oltre 1.400 migranti e tagliava i capelli al suo compagno. Finché lunedì mattina si è alzata, ha chiesto la chiave ed è entrata in bagno.

IN BASE AL REFERTO di Silvano Zancaner, medico legale incaricato dalla Procura, è morta intorno alle 9 per tromboembolia polmonare massiva bilaterale che non lascia scampo. Gli esami istologici aggiungeranno altri dettagli clinici a beneficio dell’inchiesta. Tuttavia, la morte di Sandrine non assolve la coscienza di tutti. Il Suem 118 ha ricevuto la chiamata ben dopo le 12: cos’è davvero successo nell’arco di quelle ore? C’è la versione del compagno della ragazza, che ha convinto il personale ad abbattere la porta del bagno chiuso a chiave. E la ricostruzione di Simone Borile, direttore della coop che gestisce Conetta. Tempi di allarme e pronto soccorso che non sembrano collimare…

UN PO’ COME LA FACCIATA istituzionale del business sui profughi e la voce di chi nella struttura lavora con scrupoli, dubbi e difficoltà. Andrea Priante, cronista del Corriere Veneto anche a beneficio delle grandi firme in pensione, ha raccolto la testimonianza dei «prigionieri» durante la notte della rivolta innescata dalla morte di Sandrine. «Piangevamo, chiusi in quella stanza. E poi le risate, improvvise, isteriche, senza senso. Ma soprattutto ricordo i silenzi, che erano lunghi e pieni di paura» confessano.

Insieme al divieto di parlare ai giornalisti perché rovinano l’immagine di Borile & C. Lavorano dalle 9 alle 19 per 1.200 euro al mese. Sostengono anche che la rivolta era già organizzata prima della morte di Sandrine. Raccontano di «ex guerriglieri» arrivati a fomentare gli animi. E garantiscono sulla rapidità dei soccorsi alla giovane ivoriana con tanto di defibrillatore in attesa dell’auto medica: «La verità è che, purtroppo, non c’era già più nulla da fare». E nel pomeriggio la situazione è precipitata con gli ivoriani a guidare la rivolta all’interno del campo fuori controllo.

UNA NOTTE AL BUIO, al freddo, in 25 dentro un container appesi ad una candela e alla trattativa condotta dal funzionario della prefettura. Fino alla liberazione, di corsa verso le auto ancora bersagliati dalla protesta. Sono rimasti a casa un giorno a smaltire la paura. «Abbiamo bisogno di questo lavoro, ma non ci sentiamo al sicuro. Così non si può andare avanti…» concludono. Resta il fatto che fin da giugno la «campagna LasciateCIEntrare» aveva indicato Conetta come l’anomalia più clamorosa a Nord Est. Flore Murard-Yovanovitch del Progetto MeltingPotEuropa sottolinea: «Le negligenze o i maltrattamenti esistono nei centri di accoglienza forse perché dormi sotto le tende di un cosiddetto “centro di accoglienza”, costruito in un ex-base militare o una caserma. Nel caso di Sandrine, dal suo sbarco avvenuto nell’agosto 2016, mentre centri come quello di Cona – che non è un Cas, non è un Cara, non è un hub – non dovrebbero ospitare soggetti vulnerabili come donne e bambini o vittima di tratta. Cona è un luogo “temporaneo emergenziale” che sopperisce alla mancata accoglienza dei Comuni veneti, i cui sindaci rifiutano di accogliere richiedenti asilo».

Intanto, sabato pomeriggio davanti alla prefettura di Gorizia si è data appuntamento la «rete antirazzista» che contesta l’ipotesi di riaprire il Cie di Gradisca d’Isonzo.