Nonostante sia stato riconosciuto come uno dei più fortunati biografi di Lincoln, Carl Sandburg, che sarebbe diventato il menestrello con chitarra omaggiato da Bob Dylan e Marilyn Monroe, ha avuto un po’ di vecchia gloria in Italia grazie ad alcuni stimati ammiratori e a una selezione curata da Franco De Poli nel 1961, cui è seguita – a cinquant’anni di distanza – la sola prima sezione di Chicago Poems nella traduzione di Laura Ferri. Era tempo, dunque, di rimetterci le mani su questo poeta dell’avanguardia di casa, un midwesterner (come i migliori letterati di quel tempo), figlio di immigrati svedesi, e probabilmente il primo poeta americano dell’immigrazione non anglofona. A farlo in modo più sistematico ci ha pensato Franco Lonati, il quale, con un nutrito saggio conclusivo, presenta nella sua integrità Chicago Poems (premessa di Francesco Rognoni, testo originale a fronte, Sedizioni, pp. 375, euro 29,99), la raccolta di esordio pubblicata nello stesso 1916 in cui si consolidò il successo di Edgar Lee Masters. Fu un anno felice per la Chicago letteraria che, geograficamente lontana dagli sperimentalismi di una generazione più giovane trapiantata allora in Europa, entrava in gara nel dettare le linee di un rinnovamento, e promuovere un sentire poetico dal gusto autoctono.
Un segnale che le sette sezioni e 133 poesie di Chicago Poems mostrano nella modulazione della varietà di stilemi, dei ritmi e delle forme, fattori che, contestualmente, ridimensionano il luogo comune del Sandburg epigono modernista e proletario di Walt Whitman, un giudizio ammesso dal vigore diffuso nei versi liberi e lunghi di molte poesie e in particolare della prima dedicata alla multietnica, indaffarata Chicago (la città dei mattatoi e della finanza): la «Macellaia di Maiale per il Mondo», la «Maneggiatrice del Trasporto Nazionale», città «rozza» e «rissosa» nei suoi bassifondi, città «perversa». Con le sue affiliazioni e soprattutto con le sue rotture, Sandburg rimetteva in discussione l’usurato discorso ottocentesco della «bellezza» e – su altro versante – quello della gestione dell’ideale democratico, con sguardi su un’altra America, un’America più dimessa, tradotta nella scrittura poetica con mezzi che sfuggivano alle regole del decalogo ufficiale.
Perché l’occhio del poeta si sofferma in ampie tirate su semplici operaie di fresca immigrazione che «al mattino vanno al lavoro – camminando in lunghe file fra i magazzini e le fabbriche del centro, a migliaia con i cestini del pranzo a forma di mattone avvolti in giornali e portati sotto il braccio»; sull’incontro con un «dinamitardo» in «una trattoria tedesca a mangiare bistecca e cipolle» e discutere della «causa del lavoro e della classe operaia»; o, in versi più brevi e sincopati ammiccanti a un jazz di sottofondo, su un afroamericano: «Io sono il negro, / Canto canzoni, / Ballo … / Più soffice di un batuffolo di cotone». Sono tessere di un affresco che, scrive Lonati, «come i dipinti di Pellizza da Volpedo, glorificano – non senza occasionali eccessi retorici – il cammino dei lavoratori, l’umile ma inesorabile avanzata del popolo», anche quando, e senza eccessi retorici, da quell’affresco emergono, con i batuffoli di cotone, i bellissimi (anche in traduzione) volti truccati delle prostitute di North Clark Street: «Rose / Rose rosse, / Sgualcite / Nella pioggia e nel vento / Come bocche di donne / Percosse dai pugni degli / Uomini che le sfruttano. / O piccole rose / E foglie infrante / E frammenti di petalo: / Voi che solo ieri / Splendevate scarlatte / Al sole». Sono i «fiori del male» d’America appena spuntati alla luce.
È, dunque, soprattutto una poesia di impegno sociale quella di cui Sandburg si fa tra i primi portavoce in un disinibito ritratto della città corrotta che ama, mentre, con un tocco dell’Imagismo inventato oltreoceano, al suo respiro ecumenico e commemorativo, egli alterna una vena più lirica, contemplativa, da epifanico micro-osservatore di particelle della natura, dei moti dell’anima, della morte e dell’amore: «Il ricordo di te è … un’azzurra lancia in fiore. / Non riesco a ricordarne il nome. / Accanto a un ardito papavero sgocciolante ci sono fuoco e seta. / E ti ricoprono». Non sono estranei all’influsso pittorico (dall’Impressionismo al Japonisme) certi improvvisi accostamenti coloristici e gli scarti semantici, che sfumano invece nell’idillio monocromatico in quei componimenti in cui con voce incantata si coglie lo spirito antico del luogo: la lucentezza notturna del lago, le sue «bianche bolle sfinite», la «svolazzante burrasca di gabbiani», e la nebbia che «avanza / su piccole zampe di gatto. // S’accuccia a osservare / il porto e la città / su terga silenziose / e poi se ne va». In queste «Manciate» (così il titolo della seconda sezione) di puro lirismo resta il contributo più vincente del futuro menestrello.