Ritorna in scena oggi lo spettacolo del tentativo di essere investito presidente di Pedro Sánchez. Essendo la seconda seduta d’investitura prevista dalla Costituzione, al candidato basterebbe ottenere più sì che no, con delle strategiche astensioni, per prendere possesso del Palazzo della Moncloa.

Ma per la prima volta nella breve storia democratica spagnola, il candidato non otterrà l’investitura neppure oggi. Mercoledì era finita con solo 130 voti a favore, 219 contro e una astenuta. Il famoso patto fra Ciudadanos e Psoe, firmato davanti alle telecamere con grande dispiegamento di effetti speciali, e alle spalle dei partiti di sinistra con cui in teoria stava negoziando, che doveva essere un «patto di governo» aperto alle altre forze, si è dimostrato tatticamente poco lungimirante e ha partorito un topolino: appunto, i 40 voti di Ciudadanos aggiunti ai 90 dei socialisti.

Poco più dei 123 che avrebbe ottenuto Rajoy se avesse accettato l’incarico del re. Un Rajoy che si mostrato livoroso e sarcastico, scontrandosi contro un leader socialista che ha avuto gioco retorico facile a dimostrare che, politicamente, chi è causa del suo male pianga se stesso. Lui ha rinunciato all’incarico, lui si è inimicato tutti i partiti in una legislatura caratterizzata da un nullo ascolto verso l’opposizione, e chiedere di governare per il solo fatto di avere più voti degli altri partiti ormai in un parlamento frammentato non funziona più.

Ma lo scontro e le offese personali stavolta si sono allungate fuori dei confini del bipartitismo tradizionale. Un democristianissimo Albert Rivera, leader di Ciudadanos, è stato l’unico a non attaccare il candidato, ma ha invece attaccato duramente il Pp, chiedendo ai popolari addirittura di «avere coraggio» e di allontanare Rajoy. Cosa che, ufficialmente, ha offeso moltissimo i popolari e che di certo non ha migliorato i rapporti personali fra i due leader. Anche ieri Rivera ci è andato giù pesante, criticando la passività di Rajoy e colpevolizzandolo di aver rotto i ponti di dialogo con lui.

Ma tutti gli occhi durante il dibattito erano puntati su Pablo Iglesias, che infatti non ha deluso. Non solo per il fatto di essere stato immortalato in un bacio particolarmente appassionato al leader di En comú podem (la coalizione catalana, quella con cui, assieme alla marea galiziana, ha ripartito il suo tempo di intervento rispettando l’impegno di essere un gruppo con sensibilità plurale). Ma soprattutto per la durezza dei suoi interventi contro Sánchez e il suo patto di destra, arrivando a dirgli di non ascoltare gente come Felipe González, accusato di sedere nel Cda di una grande impresa energetica e di avere le mani sporche di «calce viva», un estemporaneo riferimento al controversissimo caso dei Gal (i gruppi paramilitari contro l’Eta) che costarono la presidenza del governo a González.

Toccare il líder máximo è stato preso dai socialisti come un’offesa inscusabile. Alberto Garzón, pur con il tempo contingentatissimo per il fatto di non avere gruppo parlamentare, ha trasmesso il No del suo partito a un patto caratterizzato da politiche sociali ed economiche di destra, ma ha chiesto di riaprire il dialogo a sinistra. Degno di nota anche l’intervento dello storico leader indipendentista di Esquerra Republicana che, in modo molto grafico e con espressivo gesto delle mani, ha chiuso il suo intervento dicendo che gli dispiaceva per chi restava, ma «noi ce ne andiamo». Nonostante i toni bruschi, il dibattito è stato ricco di spunti e niente affatto noioso. Si sono addirittura ascoltate negli interventi persino del presidente della camera frasi intere nelle tre lingue co-ufficiali (teoricamente proibite al Congresso): e anche questa è una piccola novità.

E un risultato il dibattito l’ha certamente ottenuto: nessuno ormai fra i socialisti mette in dubbio la leadership di Sánchez. Quello che però non è emerso è uno spiraglio per poter costruire la maggioranza necessaria a superare lo scoglio dell’investitura.

È fallita la strategia di mettere in un angolo Podemos, facendo un patto con Ciudadanos e Izquierda Unida e Compromís, con cui un accordo era vicino – con Podemos la trattativa non è mai iniziata – ma IU è riuscita a sottrarre quest’alibi ai socialisti.

Anche il tentativo retorico di convincere che Podemos preferisce Rajoy a un «governo del cambio» crolla di fronte alla marea di No raccolti da Sánchez. Ieri la sindaca di Madrid Manuela Carmena si è esposta dicendo di auspicare l’investitura di Sánchez, ma chiarendo subito dopo che intendeva con l’appoggio di Podemos. E Alberto Garzón ha convocato di nuovo lunedì il tavolo di trattative fra Psoe, Podemos, Iu e Compromís. Ma non è chiaro il ruolo che giocherà il re, che per la prima volta dovrà prendere decisioni politiche. Lasciare che Sánchez continui a negoziare? Incaricare un altro candidato? Rajoy? O magari chiedere allo sponsor della grande coalizione Rivera di tendere ponti fra Pp e Psoe?