Elezioni anticipate sempre più vicine anche in Spagna. Ieri era il giorno in cui la politica si sarebbe dovuta stringere attorno alle vittime dell’attentato di Barcellona, di cui si celebrava il secondo anniversario. E magari cogliere l’occasione per mandare qualche segnale di distensione. Invece, come è ormai diventato abituale in uno scenario sempre più frontista, ognuno continua a tirare acqua al suo mulino, nella più totale incapacità di costruire ponti. Sull’attentato, qualche settimana fa Publico.es ricostruiva inquietanti retroscena sui rapporti dei servizi segreti con l’imam cervello degli attacchi, prontamente cavalcati da alcuni indipendentisti per accusare lo stato poco meno che di connivenza. Alcune delle ipotesi giornalistiche formulate dal quotidiano online sono state nel frattempo smentite ma – ancora una volta – prevale la narrazione sulla vera volontà di ricostruire i fatti.

Esattamente la stessa cosa accade a Madrid per i negoziati sulla formazione del governo. La data del 23 settembre si avvicina a grandi passi, dopo la batosta del leader socialista Pedro Sánchez, che a tre mesi dalle elezioni, il 26 luglio, era riuscito a ottenere, oltre che dei suoi, l’appoggio di un unico deputato: un totale di 124 voti, ben lontani dai 155 contrari che conta la destra. Se entro il 23 Sánchez non sarà riuscito a contabilizzare più sì che no, scatteranno le elezioni anticipate (il 10 novembre).

A parole, nessuno le vuole, ma nei fatti nessuno sta facendo nulla per evitarle. In primis, lo stesso Sánchez. I suoi continuano ad accusare Unidas Podemos per il fallimento, dicendo che ora al massimo sono disposti ad accettare i loro voti, e mai e poi mai a tornare a negoziare una alleanza di governo, cioè esattamente la stessa posizione assunta subito dopo le elezioni. E tutto lascia pensare che il leader del Psoe stia cercando di fare il bis di quanto accaduto a luglio: i socialisti hanno dato appuntamento ai loro unici alleati possibili (Ciudadanos, per quanto i socialisti lo desiderino, hanno chiarito che non hanno alcuna intenzione di appoggiarli) a fine agosto o a settembre.

Anche a luglio era andata così: per mesi si erano rifiutati di parlare con i viola, per poi cambiare all’ultimo strategia. Solo 5 giorni prima del voto, Sánchez aveva sparato che l’unico ostacolo per l’accordo era la presenza di Pablo Iglesias nel governo. Inaspettatamente, Iglesias aveva fatto un passo indietro, e così i negoziati vennero attivati in fretta e furia. Ma come era inevitabile, presto e bene non potevano andare assieme: da un lato la rigidità (e la scarsa dimestichezza) delle due squadre negoziatrici, dall’altra la scarsa fiducia reciproca dei due leader fecero inevitabilmente saltare i ponti. E questo nonostante nelle ultime ore si fosse arrivati sostanzialmente a una soluzione accettabile per entrambi: ma ormai troppo tardi e troppo precipitosamente per dar tempo di riflettere. Izquierda Unida, dentro la coalizione viola, ha iniziato a scalpitare e a far sentire la sua posizione più pragmatica, ma Podemos mantiene la linea: o coalizione o elezioni.

Intanto la destra, che invece ha trovato facilmente accordi in tutte le comunità dove Pp, Ciudadanos e l’estrema destra di Vox arrivavano alla maggioranza (l’ultima è stata Madrid questa settimana), si organizza per affrontare le elezioni.

Ufficialmente, Pp e Ciudadanos vogliono andare separati anche se sanno benissimo che se invece unissero le forze avrebbero risultati decisamente migliori (come effetto della legge elettorale per l’elezione dei deputati ma soprattutto dei senatori), ma così facendo dovrebbero ritardare la lotta per la supremazia nella destra. Intanto gli indipendentisti catalani sanno che in autunno la situazione sarà assai più esplosiva, con la sentenza per i loro leader incarcerati.