La temuta escalation, espressione vacua nel carnaio yemenita, è arrivata lunedì al calar del sole. La prima notte dopo l’esecuzione del dittatore Ali Abdullah Saleh è stata notte di morte: le bombe saudite hanno scandito le ore e colpito – prima volta da quasi tre anni – per quattro volte il palazzo presidenziale utilizzato dal 2014 dalla leadership Houthi. Ieri la Croce Rossa ha emesso un nuovo bilancio: 234 i morti dal 2 dicembre e oltre 400 i feriti, per lo più gravi.

Poi il sole è sorto e la pioggia di bombe si è interrotta. In tempo per permettere a migliaia di yemeniti di scendere in piazza contro l’aggressione saudita, per celebrare la morte dell’ex padrone del paese e per chiedere l’unità nazionale: si sono ritrovati nel centro della capitale a sostegno dei ribelli Houthi al grido di «Sana’a è libera, gli yemeniti sono uniti», una risposta alla chiamata alla sollevazione mossa lunedì sera dal presidente Hadi, in auto-esilio (forzato da Riyadh, come è stato per il primo ministro libanese Hariri) in Arabia saudita.

Hadi punta a stuzzicare lo scontento di una popolazione ridotta alla fame e a cui gli Houthi non sanno dare risposte soddisfacenti né servizi sufficienti a causa del conflitto armato e dell’embargo imposto dai Saud dalla fine di marzo del 2015.

«La gente sta uscendo ora dalle proprie case – racconta il coordinatore umanitario dell’Onu in Yemen, Jamie McGoldrick – Cercano un riparo, spostano le famiglie nel caso gli scontri scoppino di nuovo e intanto cercano trattamenti medici e un aiuto per calmare i bambini terrorizzati da cinque giorni di bombardamenti senza sosta».

Resta da vedere quale sarà il tenore della reazione dei sostenitori dell’ex presidente Saleh (non solo milizie armate, ma anche capi tribali), il cui corpo è stato consegnato dagli Houthi al presidente del parlamento al-Raai. La consegna, dicono fonti locali a Sky Arabia, è stata accompagnata da una condizione: nessun funerale pubblico, solo una sepoltura nella moschea di famiglia, a porte chiuse.

Ma fuori dalla residenza dei Saleh le milizie scalpitano. Gli scontri dei giorni scorsi paiono essersi affievoliti ma la speranza di una tregua – chiesta ieri dall’Onu – è ridotta al lumicino.

È molto più probabile che siano in attesa del sostegno militare in arrivo dalle forze pro-governative e dalle potenze esterne: lunedì sera il presidente Hadi ha ribadito il lancio di un’ampia offensiva da sud contro la capitale controllata dagli Houthi. Dal cielo gli abbondanti raid sauditi dovranno stringere il cerchio intorno al movimento Ansar Allah degli Houthi, che ha dispiegato i suoi uomini in tutta Sana’a, occupando gli spazi prima in mano alle milizie di Saleh.

Giura vendetta anche Ahmed Ali Saleh, il figlio dell’ex presidente dal 2012 riparato negli Emirati arabi da dove – sostengono gli Houthi, probabilmente a ragione – ha gestito il piano del padre di bypassare gli «alleati» sciiti (e anche il suo ex vice Hadi) in una futura transizione politica teleguidata da Riyadh e Abu Dhabi.

Si è autoproclamato leader «della battaglia fino a quando l’ultimo Houthi non sarà cacciato e il sangue di mio padre risuonerà nelle orecchie dell’Iran», ponendosi come successore de facto di Saleh agli occhi delle petromonarchie.

Il primo a rispondere è stato proprio il presidente iraniano Rouhani, direttamente chiamato in causa: «Il popolo dello Yemen farà rimpiangere agli aggressori le loro azioni».