«Sono orgoglioso di come è stata affrontata l’emergenza Covid, qui da noi. I volontari di Medici senza frontiere sono stati eccezionali: fin dall’inizio si sono trasferiti qui dentro per un mese e mezzo per sensibilizzare il personale e i detenuti, insieme abbiamo informato e gestito la crisi pandemica. Parte della campagna vaccinale l’abbiamo fatta proprio qui, tra le mura di San Vittore». Giacinto Siciliano è stato per tanti anni direttore di Bollate e di Opera, ma è qui che ha messo un pezzo di cuore, in modo proporzionale al sudore versato, nel carcere più antico di Milano (e non solo) – magnifica struttura inaugurata nel 1879 a due passi dalla Darsena che fa gola al mercato immobiliare privato. Questo istituto, a differenza degli altri due, è una casa circondariale, ossia ospita per la stragrande maggioranza detenuti in attesa di giudizio. Un turn over continuo, difficoltà elevata all’ennesima potenza per chi cerca di intraprendere un qualunque lavoro con e sui detenuti, che sia sanitario, culturale, formativo o riparativo.

Il Covid è arrivato come uno tsunami. Volendo vedere il lato positivo, però, ha rallentato ingressi e tempi dei processi, limitando i trasferimenti: prima si contavano 30-40 nuovi ingressi al giorno, oggi solo circa 10-15 di media. Nell’antica struttura a sei raggi (di cui due chiusi, e con un piano del 6° raggio in ristrutturazione) che si dipanano da una rotonda centrale da dove una volta erano visibili tutti e quattro i piani di reclusione contemporaneamente, con 650 posti effettivamente disponibili per gli uomini e 90 per le donne, ci sono oggi 800 detenuti circa e 80 detenute, ma nel 2000 si era arrivati a 2400 persone nei bracci maschili.

DURANTE LA RIVOLTA DEL MARZO 2020, all’inizio del primo lockdown, nel penitenziario erano 950 i reclusi e 90 le recluse. «Prima del Covid la permanenza media – spiega il direttore – era 80 giorni; il 90% dei detenuti qui è in attesa di primo giudizio, oltre il 70% è straniero, per la maggior parte, soprattutto negli ultimi anni, arrestati per mancanza di documenti o per resistenza a pubblico ufficiale. Il 20% è ristretto per la legge sulla droga, i tossicodipendenti dichiarati sono attualmente 400. Qui arrivano persone alle quali manca tutto: non hanno biancheria intima, cambi, soldi, parenti. Su 146 persone con disturbi psichiatrici, almeno 100 sono passate per i campi libici e presentano disturbi post traumatici che non si curano con i farmaci ma necessiterebbero di psicoterapie, impossibili in una casa circondariale, e con soli 5 psichiatri e 5 psicologi». Sono tutti ragazzi, spiega il direttore mentre fa scorrere sotto i nostri occhi la lista delle date di nascita: 2000, 1996, 1994…

DALLE STATISTICHE dell’ufficio matricola, il 42,38% dei detenuti presenti proviene dall’Africa, il 2,5% dall’Asia, il 5,6% dall’America latina, il 41,9% dall’Europa Cee, compresa l’Italia, e il 7,6% dal resto dei Paesi europei non Cee. «San Vittore è ormai, più che un carcere, una struttura di accoglienza – sottolinea Siciliano – molti detenuti, soprattutto irregolari, ricevono qui per la prima volta un check up medico. E per la prima volta studiano l’italiano. Paradossalmente è l’unica struttura che si fa carico, senza essere titolata, di persone come stranieri senza fissa dimora, che non vengono intercettate da nessuno. O di persone che avrebbero bisogno di cure psichiatriche ma non trovano posto da nessuna parte. Il carcere è l’unico luogo dove il posto deve esserci sempre».

I FIORI ALL’OCCHIELLO di San Vittore sono due: uno è lo storico braccio dedicato al trattamento delle tossicodipendenze, «La Nave», e l’altro è il centro clinico, trasformato dal marzo 2020 in un hub Covid per tutti i detenuti della Lombardia. «Al primo lockdown, con tutti i negozi chiusi, qui intorno, nel quartiere, c’è chi apriva solo per noi, per fornirci il materiale adatto a costruirci da soli le mascherine, perché non avevamo altro modo», racconta ancora Siciliano insieme all’infettivologo Ruggero Giuliani, medico di Msf, dirigente sanitario a capo del centro clinico e dell’hub vaccinale. «Il coinvolgimento dei detenuti è stato uno dei punti chiave. E la paura ha unito tutti, personale e reclusi, perfino i problemi psichiatrici sono diminuiti, come passati in secondo piano. Così siamo riusciti a tenere l’epidemia sotto controllo: abbiamo gestito 651 malati Covid, di cui 430 di altri istituti; uno solo è morto, ma era il secondo contagiato in assoluto della struttura. Abbiamo inoculato 1066 dosi, stiamo ora facendo la seconda dose anche a detenuti già liberati. Sono pochissimi quelli che rifiutano la vaccinazione, ultimamente però sta aumentando il numero degli italiani che la chiedono. Gli stranieri no, loro la vogliono sempre». Ora si stanno preparando per la terza dose.

QUELLO DI PIAZZA FILANGIERI è un carcere centrale, da sempre molto legato alla città, con le porte aperte a tutti per mostre estemporanee che venivano allestite nel 1° raggio (giovani adulti). Con un via vai di volontari di altissima professionalità. «Prima del Covid ogni giorno entravano 300 volontari. Poi si è fermato tutto, ora stiamo riprendendo gradualmente». Anche gli agenti penitenziari sono quasi tutti vaccinati (505 su 510), riferisce la comandante Michela Morello. «Qui ci sono poliziotti arruolati anche 30 anni fa. Tutti, uomini e donne, in 600 vivono in locali quasi imbarazzanti. Nell’ultimo biennio ci sono stati solo 150 nuovi arruolati ma il ricambio del personale è necessario, perché questo è un lavoro usurante». Ma non è una scusante per gli 8 agenti che sono imputati in un processo con l’accusa di aver pestato nel 2019 un detenuto straniero. A denunciali è stata la stessa direzione.

DURANTE LA RIVOLTA del 9 marzo 2020, scoppiata sull’onda di Modena e Pavia, molta parte degli spazi comuni è andata distrutta. «L’input è partito dagli italiani, ma vi hanno partecipato 600 detenuti, soprattutto immigrati. Ma nessuno si è fatto male. Mi ricordo di un iraniano che inneggiava alla liberazione dei detenuti, come stava avvenendo nel suo Paese», ricorda Siciliano. «Cinque persone sono finite intossicate in rianimazione, per aver rubato e ingerito medicinali vari, ma li abbiamo salvati tutti», dice Giuliani, spiegando che tutto il personale ha passato ore a convincere i rivoltosi. Attualmente sono 12 i detenuti indagati per sequestro di persona, devastazione, lesioni e rapina. Tutti trasferiti. Oussana, 25enne di Algeri, da 4 anni in Italia e da 2 anni e mezzo in carcere, è stato in coma per dieci giorni dopo aver assunto farmaci durante la rivolta. «Li prendevano tutti, li ho presi anch’io», racconta.

LO INCONTRIAMO AL QUARTO piano del 1° raggio, dove dal 2002 c’è «La Nave», la sede delle rivolte. Vi lavorano 6 persone con differenti professionalità, compresi i dipendenti SerD dell’ospedale San Paolo. Ci sono anche criminologi e un bel gruppo di professionisti volontari – giornalisti, ex magistrati… – che danno un supporto per la riabilitazione (Gerardo Colombo si occupa di educazione alla legalità). Ci sono 57 posti e una selezione molto rigida dei detenuti che vi possono accedere, in base alla posizione giuridica (devono poter rimanere almeno otto mesi) e alla motivazione (solo chi è pronto per un percorso terapeutico serio). Ora alla Nave sono in cura soprattutto dipendenti da alcol e cocaina, con un’età media alta (35-36 anni). Anche se, spiegano, «è tornata anche l’eroina». La cannabis, invece, «è una costante nelle storie di tossicodipendenze ma arrivare ad usare solo quella sostanza è considerata quasi una guarigione». Ed è in questo posto – coinvolgente per la passione degli operatori – che spesso «per la prima volta si rendono conto di essere tossicodipendenti».

PER QUALCUNO LA DIPENDENZA «è un salvavita dalla criminalità, perché non è accettata dalle grandi famiglie criminali». Per altri è solo una trappola, come per Kashem, 40enne tunisino che nel suo Paese aveva conosciuto l’hashish ma da quando nel 2008 è arrivato in Italia, a Bergamo, si è ritrovato nel buco della cocaina. Sbarcato a Lampedusa dopo tre giorni di mare «su una barca con 291 persone», ha conosciuto – almeno così racconta, ma con dovizia di particolari – i campi libici. «Ho passato tre mesi in una grande stalla a Trablos (Tripoli, ndr) insieme con uomini donne e bambini. Lì succedeva di tutto, ogni tipo di violenza. Ogni giorno gli sbirri in borghese, armati, scelgono le persone, prendono i soldi- da me 2200 euro – ti tolgono il telefonino e ti imbarcano. Dopo un po’ che ero qui, avrei voluto tornare in Tunisia, ma non mi hanno mai rimpatriato». San Vittore è il suo sesto carcere in Italia.