Milano, quartiere San Siro, esterno giorno ai tempi della pandemia. Convivono, in pochi chilometri, ruotando come un perno attorno a piazzale Segesta, case popolari complesse e villini scintillanti.

«San Siro, al di là della stigmatizzazione che spesso è emersa nel racconto del quartiere, è un laboratorio che permette di osservare alcune dinamiche generali della città, che qui sono esasperate. Realtà molto diverse che sono molto vicine». Elena Maranghi è una ricercatrice che da anni lavora nel quartiere con il progetto MappingSanSiro, un gruppo di ricerca-azione, coordinato dalla professoressa Francesca Cognetti del Politecnico di Milano, attivo nel quartiere dal 2013, anche con uno spazio permanente.

San Siro (Foto: Christian Elia)

 

«San Siro riceve dalla città meno di quello che dà in termini di risorse, anche informali. Qui c’è bisogno di welfare tradizionale, sia chiaro, però si osservano delle micro-pratiche di prossimità molto interessanti. Una di queste è Sansheroes, una rete – nata nel 2016 – che raccoglie diverse realtà del quartiere e ha prodotto il documento Istantanee di San Siro per raccontarne le dinamiche. Un luogo dove si scambiano pratiche, informazioni, metodologie differenti. Uno degli aspetti interessanti di questo periodo è la necessità emersa di stare in contatto: questo ha prodotto un monitoraggio della situazione del quartiere. Nonostante le tante difficoltà, ha funzionato nel fornire una risposta rapida ai bisogni. In diversi quartieri di edilizia pubblica, e San Siro non fa differenza, si è un po’ persa la conoscenza del territorio da parte delle istituzioni. C’è bisogno di investire in questa conoscenza».

«Siamo delle figure professionali, non volontari, che si occupano di un servizio di prossimità negli stabili delle case popolari a Milano, sia quelle comunali (MM) che della Regione Lombardia (Aler). Collaboriamo con i servizi sociali del territorio: li attiviamo su segnalazione e aiutiamo le persone ad approcciare i servizi nelle pratiche burocratiche, nei bisogni, in particolare per le persone anziane, sole, quelle fragili, ma anche adulti in difficoltà, o minori in situazioni complesse», racconta Giovanna, una delle Custodi Sociali.

San Siro (Foto: Christian Elia)

 

«Il nostro lavoro ha due anime, una tragica e una ludica: servizi di orientamento, spazi di socialità, attività ricreative, biblioteche condominiali: monitoriamo le persone sul territorio. La pandemia ci ha costretti a chiudere gli spazi e a sospendere le visite a domicilio, ma il coordinamento ha permesso di attivare subito una rete, ad esempio per le farmacie che consegnavano a domicilio. Oppure, rispetto alle parrocchie di quartiere, di sostituire i servizi che fornivano loro, ma che erano svolti da persone anziane, che è stato meglio lasciare a casa. La rete ha funzionato, perché esistevano sentinelle sul territorio. La gente te lo riconosce. Il nostro obiettivo, qui a San Siro, è quello di far dialogare di più le due zone del quartiere, di superare le distanze. In questo senso con la rete delle scuole e delle parrocchie si fa un gran lavoro, ma speriamo che questa situazione serva ad avvicinare queste due parti di San Siro».

Anche Giovanna e i Custodi sociali hanno aderito a MilanoAiuta, una piattaforma che il comune di Milano ha attivato sulla città. Una centrale operativa riceve le richieste, la rete delle associazioni si attiva.

Un pulmino arriva e consegna due buste di alimenti a due marmocchi assonnati. I volontari hanno la pettorina di MilanoAiuta. Cecilia Strada è una delle coordinatrici di AiutArci Milano. «Abbiamo messo a disposizione del Comune di Milano il nostro lavoro con i volontari fin dall’inizio. In particolare con la spesa a domicilio, per coloro che non potevano andarci e per coloro – i nuovi poveri del lockdown – che non potevano permettersela. Poi c’è stata la distribuzione delle mascherine gratuite, per la quale ci siamo coordinati con la Protezione Civile, Emergency e Jesurum Energie Sociali. In tutte le case popolari della città, quasi 100 volontari hanno distribuito le mascherine e riescono anche a essere una rete che raccoglie le richieste delle persone in una condizione di fragilità».

San Siro (Foto: Christian Elia)

 

Decine di persone aspettano il loro pacco di mascherine da distribuire. Molto giovani, come Alberto, studente di medicina, già volontario Arci, e Marianna, studentessa fuorisede a Milano. «Mi volevo rendere utile», dice sorridendo. E via a salire scale, bussare, presentarsi, salutare. Le risposte e i ringraziamenti hanno l’accento della vecchia Milano, del Nord Africa e di mille mondi ancora.

«Il confine a San Siro c’è e lo vedi. Per esempio la linea del tram 16 divide in due le possibilità economiche del quartiere», racconta Paola, una maestra che si impegna nel Comitato Abitanti San Siro. «I quartieri popolari sono quei luoghi dove le disuguaglianze si notato con più forza, un processo che a Milano è iniziato da tempo, con la gentrificazione di quartieri popolari e l’espulsione di una parte della popolazione. Noi ci occupiamo della questione abitativa, prevalentemente. Perché una residenza incide in modo drammatico sull’accesso a tutta una serie di servizi e diritti. E questo è esploso in particolare adesso, dove ci si chiedeva di stare in casa. Ma che tipologie di case? Magari in condizioni di sovraffollamento, o con una pessima manutenzione. La Regione Lombardia, ha avuto il coraggio di effettuare uno sgombero proprio in questi giorni. Però il tessuto sociale del quartiere esiste e tiene. Il nostro lavoro, oltre alle case, è con i doposcuola e le lezioni di lingua, facciamo rete e questo crea rapporti. Le staffette del Mutuo Soccorso hanno provveduto alla consegna di tablet e materiale didattico a quelle famiglie che già conoscevamo. No assistenzialismo, ma aiuto reciproco».

San Siro (Foto: Christian Elia)

 

Tommaso Santagostino è uno dei residenti del quartiere. Ricercatore, è tra gli autori del documentario Potlach, una ricerca-azione sugli spazi urbani e sperimentazione visuale sulle “identità” che abitano una città globale.

«L’avviso in bacheca che annunciava la distribuzione delle mascherine è stato un segnale, positivo, di cura per il quartiere. Qui, negli ultimi anni, ci sono gli assegnatari, ci sono quelli come me che da assegnatari in passato hanno comprato, e quelli che hanno comprato da vecchi assegnatari. Oltre a tutte le situazioni abitative informali. Ecco, mi domandavo quanto sia nota questa complessità alle istituzioni che arrivavano qui a fare una cosa bella. La mia percezione da cittadino che non appartiene a nessun gruppo è che nel quartiere non si sia avvertita una risposta evidente e particolare a questa situazione, ma si sono amplificati tutti i processi di rete e sostegno già in atto. Senza proclami e senza una eccessiva necessità pubblica di mostrarsi da parte di chi è coinvolto, che siano singoli, gruppi informali o organizzazioni più strutturate. San Siro non è un quartiere dormitorio, è un quartiere vivo. La misura di tutto resta la casa: il Covid ha reso più nitido il mondo in cui viviamo, non c’è stato un movimento a riequilibrare, e il caso dello sgombero avvenuto in questi giorni lo riflette: una massiccia e sproporzionata azione di forza che parla a una parte del quartiere, che chiede quel segno di presenza delle istituzioni. Siamo tutti più vicini, ma la soglia domestica è il limite, e questa situazione l’ha reso ancora più evidente».

Per una volta, in fondo, San Siro potrebbe non essere l’oggetto di racconto, ma il soggetto di una narrazione differente di questa città. Una narrazione che non nasconde le contraddizioni, che non cancella il disagio, ma che nell’interazione tra le attività di comunità e le istituzioni possa trovare un nuovo modello di gestione della città, senza bisogno di un’altra pandemia.