Quattro anni fa, introducendo una conversazione con Federico Campagna e Franco Berardi Bifo, Jesse Darling raccontava la storia di una scultura mai realizzata: una statua insieme occidentale, classica, e orientale, votiva, simile a un golem ebraico, che avrebbe dovuto essere immersa in acqua corporea e ripresa sott’acqua per tutta la durata della mostra cui era destinata, fino a venire abbandonata ai pesci e ai posteri. L’opera sarebbe stata una riflessione sulla durata dell’arte, che pretende di superare il tempo, ma vive essenzialmente nel tempo: non essendo stata mai realizzata, diventava automaticamente eterna (in quanto idea) e anche immediatamente mortale (in quanto abortita). L’impossibilità di catturare i confini, tra vita e morte, umano e tecnologico, durata e fine, è il centro di tutta la sua opera, che è per natura filosofica, come dimostra la scelta degli interlocutori in quell’occasione (era l’Extinction Marathon alla Serpentine Gallery): un invito a riconoscere la nostra finitudine e viverla con grazia, per andare incontro alla fine sapendo di aver vissuto, diceva in quella stessa occasione. A lei, londinese, trentaseienne, laureata al St. Martin College of Art and Design nel 2010 e specializzata a UCL nel 2014, che si rifiuta di essere chiamata «lei» o «lui», ma vuole essere solo «loro» (they, che in inglese si usa anche per definire l’impersonale, quando non si sa se si parli di un maschio o una femmina), la Tate Britain dedica ora la sala sull’arte contemporanea, Art Now, che conclude il percorso storico della galleria attraverso l’arte britannica: Jesse Darling: The Ballad of Saint Jerome, fino al 24 febbraio 2019.
Il titolo è di per sé displaced, collocato fuori dalla contemporaneità per poterla guardare più in profondità, come i pesci che avrebbero dovuto guardare la statua mai realizzata: niente di meno attuale e meno interessante di San Girolamo nella società dei consumi capitalistici e della tecnologia famelica. Tanto più il San Girolamo di una leggenda, quella del leone, che venne guarito da lui, come racconta Jacopo da Varagine. Eppure intorno a San Girolamo si dipana l’universo del corpo, mortificato nella penitenza, umiliato dalla ferita e risanato dalla cura, fino a rivelarne sfide e limiti. Grazie a lui il leone può incontrare chi ha presunto troppo dal proprio corpo, come Icaro, che l’ha portato alla più rovinosa delle cadute, e chi ha avuto un corpo con poteri superiori alle sue stesse aspettative, come Batman, che non sogna altro che protezione. Alto, il mito classico, e basso, il supereroe pop, non sono neppure categorie da prendere in considerazione, perché l’approccio è quello di chi vede il mondo avendo tutta la storia a disposizione davanti a sé, simultaneamente, scegliendo su un piano orizzontale i propri riferimenti come in un videogame – altro elemento caratterizzante di Darling. Meta-istallazioni, le chiama lei, ben sapendo che tutte le sue istallazioni sono una riflessione sulla natura e la funzione dell’arte.
San Girolamo, dunque, come luogo di convergenza di una triangolazione che si può spiegare solo concettualmente: ferito nella carne e bisognoso d’aiuto, il leone si lascia curare e scopre la possibilità dell’amicizia; suoi contrari, Icaro, che si sente onnipotente nella mente e dimentica i limiti del corpo, e Batman, che è investito di una missione più grande di lui e cerca sicurezze dal di fuori. Ecco che la sala diventa una meditazione sull’incarnarsi della fluidità dell’essere contemporaneo, che non ha più confini, ma conserva una forma: controllo, prigionia, malattia, subordinazione e respingimento dell’altro sono nella dialettica tra il leone e il santo, le cui figure restano rigorosamente separate, salvo potersi scambiare all’improvviso i ruoli, come in un gioco dove al centro restiamo sempre noi, gli spettatori incapaci di entrare nell’opera, eppure opera noi stessi.
Sembrerebbe un puro esercizio concettuale se Darling non lo materializzasse in una Wunderkammer asettica, dove conta di più l’effetto ospedaliero dell’insieme che la qualità delle singole opere (spesso e volentieri regalate al kitsch più spinto). Lo spazio museale si trasforma così nella sala operatoria dell’artista, che seziona tutto chirurgicamente (nel senso etimologico: col lavoro delle mani) per mettere in gioco la sempre più difficile dialettica tra concettuale e visuale. Due propilei introducono la sala, mostrando la sofferenza e la solitudine del leone, da un lato testa di gesso e polistirolo con una palla da baseball in bocca e un moncherino di zampa avvolto nella garza, tenuti insieme da una tensostruttura filiforme d’acciaio, dall’altro stessa testa che beve da un biberon mediante un tubicino stile flebo, sostenuto da analoga struttura. La concettualizzazione è sopraffatta dalla visualizzazione, con pezzi di mani e zampe, grucce da passeggio, tubi in silicone e scopini da gabinetto dappertutto. Le forme ferite, mutilate e deviate si liberano e prendono vita, rifiutando posizioni e significati prefissati: le grucce da passeggio si contorcono fino a diventare serpenti che strisciano, teche con faldoni d’archivio si animano su gambe distorte come se cercassero di ribellarsi alla forzata immobilità e mani senza corpo sostengono una scala a pioli sospesa alla parete.
Eppure, come avviene in ospedale, il macabro e il moribondo sono attutiti dall’immaginario infantile, con quei disegni di bambini alle pareti che vogliono solo confortare: disegnato come lo farebbe un bambino è il leone un momento prima di presentarsi a San Girolamo, quasi una scimmietta con un’arma in mano; mentre Batman è di per sé consolatorio, come si addice ai supereroi della Marvel. Attraverso l’immaginario infantile s’innesta allora su tutto una dimensione religiosa, che trasfigura il mondo del dolore in visione di speranza. Le teche si trasformano in nicchie, Icaro appare come un crocifisso e l’incontro del leone con Batman rivisita una natività rinascimentale. Le forme sono ancora inquietanti, Batman verginale di fronte al leone stile-Madonna col cucciolo in braccio, e Icaro-cuscino forzato da un guinzaglio a prendere forma; ma dietro c’è un mistero, che schiude un orizzonte altro, rivolto a una dimensione mistica.
Sola via per superare l’impasse tra concettuale e visuale, la religiosità si manifesta nella scoperta della fluidità dell’essere anziché in qualsivoglia professione di fede: affascinata dall’erosione della lingua, che si contamina e distorce fino a non essere più in grado di dire quello che un tempo diceva, e dalla possibilità del sesso senza generi, per cui l’eros non si concentra più sul corpo ma sull’azione e sugli oggetti, Jesse Darling sta esplorando quella zona in cui le cose non sono più se stesse, com’eravamo abituati a conoscerle, ma neppure già qualcos’altro, che possiamo a sua volta definire. Una regione dell’essere-in-trasformazione che sfugge sempre a ogni comprensione: perché la vita è più forte dell’arte, a meno che l’arte non le si arrenda e basta. A lei si deve, in un’altra occasione, il primo esempio di un filmato pornografico nel quale non compaiono corpi, ma solo oggetti, perché ambisce a un erotismo che non reifichi più i corpi, ma esalti la potenzialità del fare: perciò c’è ancora e sempre la penetrazione, ma non si sa di chi a chi.
Se la nostra condizione è quella di un «soggetto relazionale determinato nella e dalla molteplicità, che vuol dire un soggetto in grado di operare sulle differenze ma anche internamente differenziato, eppure ancora radicato», come ha sostenuto Rosi Braidotti, Jesse Darling è appunto questo soggetto: transito puro, dove non c’è temporalità, perché l’ordine delle cose non ha senso, e non c’è dispersione, perché tutto è irretito.