Nella storia della Samsung ci sono stati momenti più strani della trama di una fiction. In una notte di settembre nel 1964 Lee Maeng-hee, figlio maggiore del fondatore del colosso coreano Lee Byung-chul, si trovava nella villa del padre a Pusan. A un certo punto due uomini entrarono nella sua stanza identificandosi come funzionari del secretarial office della conglomerata. In tutta risposta il rampollo sparò in aria un colpo di fucile mettendoli in fuga. L’aneddoto è raccontato dal quotidiano Hankyoreh ed è tratto dal libro «Lee Maeng-Hee, prince Sado of Samsung», del giornalista Lee Yong-u.

L’accostamento è con il secondogenito del re Yeongjio della dinastia Joseon che si dice fu ucciso da uomini della ristretta cerchia di fedelissimi al padre. La vicenda di Lee Maeng-hee, morto di cancro nel 2015, è anche la storia della successione a quello che oggi è il più grande gruppo industriale della Corea del Sud, un gigante capace di generare da solo circa un quinto della quarta potenza economica asiatica, e la dodicesima al mondo, tale da essere considerato di fatto il ministero dell’Economia del Paese, non a caso detto anche la Repubblica della Samsung.
Quando nel 1967 il patriarca Lee dovette lasciare la presidenza dell’azienda che aveva fondato 29 anni prima, quando ancora la Corea era sotto la dominazione giapponese, il figlio più grande entrò nel management, pur inviso a parte dell’establishment.

Si dice che furono gli uomini vicini a Lee Byung-chul a convincere il patriarca che lo stile dirigenziale del figlio non fosse adatto alla Samsung. Tra questi, nella ricostruzione di Lee Yong-u ci sarebbe stato Hong Jin-gi, presidente dello JoongAng Ilbo, uno dei principali quotidiani del Paese, considerato alla stregua della centrale d’intelligence dell’azienda, nonché suocero del giovane di Lee Kun-hee terzo rampollo della dinastia e attualmente presidente del colosso, benché costretto dal 2014 a stare dietro le quinte per problemi al cuore.
Gli anni a cavallo tra il 1966 e il 1967 furono uno snodo per il futuro delle «Tre stelle». Nove anni dopo la fondazione nel 1947, Samsung era già una storia di successo che iniziava a diversificare il propri business.

Sotto il governo del generale Park Geun-hee si avvantaggiò della protezione concessa dal governo ai grandi gruppi industriali. Ma fu proprio un’inchiesta ordinata dallo stesso generale a costringere Lee Byung-chul alle dimissioni aprendo la strada all’ascesa di Kun-hee. Nel 1966 emerse che la Korea Fertilizer, una controllata del gruppo, guidata dal secondogenito Lee Chang-hee, aveva cercato di introdurre illegalmente in Corea del Sud 55 tonnellate di saccarina.

Il padre in quanto presidente fu costretto alle scuse e a lasciare. Chang-hee finì sotto inchiesta e decise di spifferare al governo informazioni su alcuni scandali che riguardavano il patriarca, secondo indiscrezioni imbeccato dal fratello maggiore. Agli occhi di Byung.chul entrambi erano pertanto fuori dai giochi, lasciando campo libero al terzogenito Kun-hee. Trascorsi cinquant’anni la Grande successione è sempre al centro delle vicende della conglomerata.

Quando lo scorso 5 febbraio il vicepresidente Lee Jae-yong, erede designato, è uscito dal carcere dopo aver trascorso quasi un anno in cella con l’accusa di corruzione, perché coinvolto nello scandalo che ha fatto cadere la presidente Park Geu-hye, i sudcoreani hanno gridato nuovamente all’impunità per gli esponenti delle grandi chaebol, i mastodonti che dominano l’economia nazionale.
In qualche modo si è anche chiusa la saga della successione nella quali i figli di Kun-hee sono coinvolti da quasi un lustro. I guai giudiziari di Jae-yong, prendono infatti le mosse dalle manovre per garantirsi il controllo del gruppo . L’accusa sosteneva infatti che la richiesta di sostegno al governo per favorire la fusione tra due divisioni dell’azienda, la Cheil Industries e la Samsung C&T sarebbe stata favorita da mezzette con le quali, nel complicato intreccio azionario, il vicepresidente avrebbe rafforzato il proprio ruolo.

La corte d’appello non ha trovato riscontri. E Jay Y potrà salire sul trono, benché condannato a due anni e mezzo con pena sospesa per i fondi versati alle fondazioni di Choi Son-sil, dama nera dello scandalo Park.