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Samira Elagoz, la telecamera e il divenire

Samira Elagoz, la telecamera e il divenireDalla performance «Seek Bromance» di Samira Elagoz

Intervista Leone d’argento per il Teatro alla Biennale 2022: la vita come ricerca performativa sui ruoli di genere

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 2 aprile 2022

«L’interazione, così come la fluidità e l’adattabilità della mia posizione, è essenziale» afferma Samira Elagoz. Uno statement per il suo lavoro, teso com’è tra performance e film, commistione totale di vita e arte, dove il polo è l’incontro con l’altro inteso come straniero, porta aperta sull’imprevedibile. Il performer e documentarista finlandese di origini egiziane, nato nel 1989, è il Leone d’Argento per il Teatro della Biennale 2022, assegnato dai direttori artistici Stefano Ricci e Gianni Forte. Il 30 giugno presenterà a Venezia Seek Bromance, come sempre un’esplorazione che parte da sé, in questo caso dal processo di transizione da donna a uomo che Elagoz sta affrontando. «I miei lavori precedenti riguardavano i primi incontri, i soggetti andavano e venivano velocemente, stavolta volevo dedicarmi invece a qualcosa di più duraturo e ho passato tre mesi con un artista brasiliano trans chiamato Cade Moga» racconta. Abbiamo intervistato l’artista per scoprire qualcosa di più sul suo percorso di ricerca, legato a doppio filo allo spirito del tempo per forme e temi.

È molto difficile separare la vita e la performance nel tuo lavoro. Esiste un confine?
Ho scelto di non essere un artista che lavora in uno studio con dei colleghi. In tutte le mie performance la vita deve accadere prima, poi ne traggo qualcosa. Per questo non seguo alcun copione, lascio spazio all’imprevedibilità seppur raggruppando una serie di eventi e a volte creandone alcuni mentre sono alla loro ricerca. Credo che l’aspetto più importante sia la mia presenza intesa come osservatore che viene anche osservato, un approccio che rompe le barriere tra artista e soggetto, tra regista e performer e tra osservazione oggettiva e interpretazione soggettiva. In Cock, Cock…Who’s there? ho condensato tre anni della mia vita in uno spettacolo di un’ora. Certo, esporre la mia storia a tal punto ha creato dei fraintendimenti, le persone talvolta credono che avendo dato vita a un lavoro molto personale possono anche pormi questioni altrettanto intime. All’inizio sentivo la responsabilità di dover leggere e ascoltare tutte le storie che il pubblico mi inviava, e visto il tema dello spettacolo è stato piuttosto pesante ascoltare le numerose testimonianze di violenza sessuale. Ho dovuto necessariamente mettere dei confini. Con Seek Bromance però le persone tendono invece a condividere le loro storie d’amore e di transizione, quindi è decisamente più leggero.

Finora ti eri sempre concentrato sui comportamenti che i ruoli maschili e femminili mettono in campo, come cambia questo approccio in relazione a una umanità trans in «Seek Bromance»?
La mascolinità è un tema ricorrente nel mio lavoro, credo che nei progetti precedenti la ricercavo da outsider, identificandomi ancora come donna. Ora la osservo da un punto di vista privilegiato, per così dire, riconoscendomi come persona in transizione. Cock, Cock…Who’s there? è iniziato come un’ode all’essere donna, ma alla fine si è rivelato un addio. Lì e nel mio film Craigslist Allstars ho voluto analizzare la strana coreografia che si crea nella tipica situazione in cui un uomo e una donna si incontrano. Volevo vedere cosa provocava la mia femminilità e perché, criticando i cliché. In Seek Bromance l’attenzione è più sull’interazione tra femminilità e mascolinità, e su quanto sia difficile a volte anche come persona trans scappare da quegli archetipi che sono costantemente rafforzati dalla società. Inoltre, in questo lavoro viene sollevato un interrogativo su come l’uso degli ormoni e del testosterone influisca nelle prestazioni di genere. Infine, volevo realizzare una performance in cui non si trattasse di educare il pubblico o di incarnare esempi positivi, ma di mostrare una storia vera, dove i protagonisti trans sono complessi e travagliati, ammirevoli e problematici. Non volevo spiegare il nostro genere e la nostra identità, ma piuttosto mostrare come lo facciamo tra noi, da una persona trans all’altra, dove non si tratta di giustificare la nostra esistenza ma di condividere un processo.

L’incontro con persone sconosciute è molto importante per la tua poetica, perché? Qual è poi il ruolo di internet, il mezzo attraverso cui spesso entri in relazione?
Sono sempre stato una specie di romantico digitale. Le piattaforme online danno la possibilità di ridefinirsi, c’è un istinto ad essere meno riservati con estranei sul web. È una strana intimità creata dall’anonimato, si agisce come si vorrebbe senza avere paura del giudizio. Sono anche sempre stato curioso di scoprire come le persone si esibiscono davanti a una telecamera o webcam. Inoltre, mi interessa molto rappresentare il corpo umano medio e imperfetto senza cercare di renderlo più o meno di quello che è, considerato che viviamo in un mondo artificiale pieno di immagini idealizzate. Permettendo ai miei soggetti di filmare anche me, la telecamera è in una continua conversazione e tutti sono liberi di presentarsi come vogliono. C’era chiaramente il rischio di creare un allestimento innaturale, perché invitare uno sconosciuto a casa propria e filmarsi a vicenda non è una situazione abituale. Direi quindi che le riprese non ci mostrano la verità, ma piuttosto provocano il loro tipo di verità, che non sarebbe possibile senza la camera. Nel mio caso poi, visto che il regista entra nel suo stesso film, la veridicità si confonde ancora di più.

Sei molto esposto nei tuoi lavori, non arriva un momento in cui senti il bisogno di proteggerti dai rischi?
Nel 2016, quando ho terminato Cock, Cock…Who’s There, non c’era ancora il fenomeno #metoo. Molte storie di stupri erano incentrate sul vittimismo e su come le donne venivano distrutte, senza mai alludere al fatto che la vittima avesse possibilità di azione. Mi mancavano delle storie in cui potessi effettivamente identificarmi, quindi ho deciso di condividere la mia. Volevo fare una performance che fosse accessibile anche agli uomini, ero convinto che non attaccarli avrebbe permesso loro di analizzare qualcosa di se stessi. Durante i 4 anni di tour, la domanda più comune era senza dubbio: «Non hai avuto paura a filmare i tuoi incontri con uomini sconosciuti?». La risposta è che avevo delle norme di sicurezza e che non era il pericolo che mi interessava riprendere. Non posso fare a meno però di percepire una messa in discussione della mia capacità di prendere decisioni, come se non fossi in grado di decidere del mio corpo.

Ora sei riconosciuto sia nel teatro che nel campo del documentario, come descriveresti il tuo rapporto con questi mondi?
Mi piacciono entrambi, tuttavia mi infastidisce che gli uomini siano ancora così dominanti nel cinema. Ho iniziato a girare il mio primo film Craigslist Allstars nel 2016 e la maggior parte dei festival cinematografici a cui ho partecipato erano pieni di uomini anziani, alcune donne, quasi nessuna persona trans. A quanto pare le cineaste donne rappresentano meno del 25% dei cineasti europei. La scena della performance è molto più variabile, ma quello che mi interessa è che il cambiamento avvenga al livello di curatori e direttori di festival, che siano incluse finalmente le persone trans.

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