E’ l’ornamento, alfabeto di una «scrittura» decorativa depositaria di storie e tradizioni, a catturare e orientare lo sguardo del visitatore nelle sale dell’Institut du Monde Arabe (IMA) di Parigi, in occasione della mostra Sur les routes de Samarcande. Merveilles de soie et d’or (fino al 4 giugno). Curata da Yaffa Assouline con Élodie Bouffard, Philippe Castro e Iman Moinzadeh, l’esposizione è realizzata in collaborazione con la Fondazione per lo sviluppo delle arti e della cultura della Repubblica dell’Uzbekistan. Al secondo piano dell’edificio progettato da Jean Nouvel la percezione visiva è attraversata proprio dal senso di continuità dell’elemento ornamentale: dal suo occupare ogni singolo spazio, materiale, tecnica, che sia il ricamo di un tessuto o la decorazione sul cuoio della sella, l’incisione sull’impugnatura di un’arma, la filigrana di un gioiello o l’ordito ricoperto dalla trama nell’arazzo, visibile al rovescio nel tappeto. Un patrimonio identitario che nasce dallo scambio delle culture dei popoli delle steppe dell’Asia Centrale con la Persia, l’India, la Cina e con la civiltà araba particolarmente influente nei monumenti e nelle architetture.

Provenienti da musei nazionali dell’ex repubblica sovietica, indipendente dal 1991, questi circa trecento pezzi viaggiano per la prima volta fuori dal paese, testimoni di una produzione artistica e artigianale straordinariamente raffinata che ha raggiunto il suo apice nei secoli XIV e XV, e nuovamente tra la fine del Settecento e gli anni venti del secolo scorso.

Lo chapan in stile darkham di Mohammad Alim Khan (1880-1944), ultimo emiro della dinastia Manghit di Bukhara (discendente di Gengis Khan), è un perfetto esempio di quella magnificenza. Il caftano/cappotto poteva essere indossato solo da sua eminenza, dalla consorte e dal successore: quattro chili di velluto e seta con ricami d’oro (zardozi) a motivi floreali che coprono l’intera superficie dell’indumento, realizzati da dodici ricamatrici che hanno lavorato per tre mesi. Dal mondo vegetale provengono altri motivi stilizzati, tra cui il frutto del melograno simbolicamente associato alla fertilità e al sole, migrato nel ricamo e nelle decorazioni del tradizionale suzani (suzan in persiano significa ago/ricamo) utilizzato per i tessuti d’arredo che hanno sempre conferito alle dimore un carattere d’intimità. Ne parla anche Ruy González de Clavijo (fine XIV sec.–1412), ambasciatore del re Enrico III di Castiglia e León alla corte di Tamerlano, nel dettagliato resoconto del suo viaggio del 1403-’06 che fu pubblicato per la prima volta a Siviglia con il titolo Histora del Gran Tamorlan (1582).

In realtà si contano sulla punta delle dita i viaggiatori stranieri che negli ultimi cinquecento anni si sono inoltrati nelle vaste zone desertiche di questo territorio che faceva parte del Grande Turkestan, lungo gli ottomila chilometri della Via della Seta, oltrepassando le cinta murarie delle città di Samarcanda, Bukhara, Khiva, Shakhrisabz, Termez e Kokand con le loro cupole di maioliche azzurre di moschee e madrase, tra le architetture islamiche più emblematiche dell’era Shaybanide. Nel 1863 l’orientalista ungherese Arminius Vambéry (1832-1913), autore di Un falso derviscio a Samarcanda (la prima edizione illustrata italiana, Treves 1873, è stata ripubblicata nel 1997 nella collana «Miraggi» del Touring Club Italiano), proprio travestito da derviscio sfidò il destino (dal XVIII secolo Bukhara e Samarcanda erano interdette agli infedeli) per trovare conferma alle sue ipotesi in campo linguistico sulle affinità tra i dialetti magiari e quelli turco-tartarici. Nelle pagine del suo memoir c’è il racconto suggestivo delle meraviglie di seta e oro, proprio come quelle in mostra all’IMA, in particolare i caftani femminili yelak o doya dai colori sgargianti provenienti dalla regione di Khorezm con il broccato e le sete bekasam a strisce o l’ikat tessuto a mano su telai di legno con il tipico motivo intrecciato adras, che si alternano ai cotoni più pregiati.

Vambéry descrive con enfasi le mercanzie nelle botteghe del mercato di Bukhara: «Là si vede il bellissimo tessuto di cotone chiamato aladja, nel quale due vivaci colori s’alternano in istrettissime righe; poi diverse specie di seterie; da quei fazzoletti impalpabili che hanno appena la consistenza d’una tela di ragno sino all’atres pesante che si maneggia con ambe le mani. Il cuoio lavorato richiama in gran parte l’attenzione: l’arte del tagliatore e l’abilità del calzolaio meritano il nostro elogio. Le scarpe a uso de’ due sessi si fabbricano qui meravigliosamente bene: quelle per gli uomini hanno un tallone alto che termina in punte della lunghezza d’una testa di chiodo; quelle per le donne sono adorne sovente di magnifici ricami di seta». Parole che coincidono con i preziosi oggetti provenienti anche dal museo statale delle arti dell’Uzbekistan di Tashkent, capitale dell’Uzbekistan: una coppia di scarpe femminili di cuoio (kovush) con ricami dorati del 1897, come pure gli stivali da equitazione fatti a Bukhara nel 1865-’70.

Tornando alle stoffe, l’impavido viaggiatore parla di «fruscio delle sete nuove» e di «qualità musicale del tessuto», evocazioni di grande seduzione soprattutto se associate ad accessori e indumenti femminili tradizionali come il kaltapushak, copricapo che rendeva riconoscibili le donne maritate, decorato con arabeschi oltre che con motivi vegetali e dotato di un corto velo, oppure gli abiti chiamati paranjas (simili al burqa o al chadari afghano) che si indossavano a partire dall’età di dieci anni. Nel 1886, di passaggio a Bukhara, Lord Curzon (George Nathaniel Curzon, 1859-1925), politico inglese, durante il lungo viaggio fonte d’ispirazione per Russia in Central Asia (1889) descrive proprio questi indumenti parlando delle donne «scambiate per vestiti che vagavano» anche per via della caratteristica delle finte maniche delle tuniche appuntate sul retro. Nel 1927, sotto i Sovietici, quando venne dichiarata l’uguaglianza di genere ne fu proibito l’uso.

Se alle sapienti mani femminili è ancora oggi affidato il lavoro del ricamo tra ritmo, segno e tempo, quelle maschili si esprimono attraverso l’arte dell’oreficeria creando gioielli in parte legati a riti apotropaici, come il tadj-duzi in filigrana d’argento, turchesi, quarzo, corallo e vetri colorati. Questo gioiello presenta quattro boteh (motivo ornamentale a forma di mandorla con l’estremità superiore ricurva molto popolare in tutte le arti islamiche), che per gli zoroastriani era simbolo di vita eterna. Un messaggio che continua a tramandarsi di generazione in generazione.