La traiettoria letteraria di Samanta Schweblin – fatta di una serie di libri che mostrano una linea continua di ricerca a dispetto delle diverse soluzioni narrative – è ormai riconosciuta come una tra le più convincenti del panorama latinoamericano. Quasi tutta disponibile in Italia grazie alle traduzioni dei romanzi Distanza di sicurezza (Sur, 2020) e Kentuki (Sur, 2019) e delle raccolte di racconti Sette case vuote (Sur, 2021) e La pesante valigia di Benavides (Fazi, 2010), la sua opera insiste nel mescolare i codici letterari più conosciuti della narrativa latinoamericana con le istanze della società contemporanea.

Il realismo di fondo delle sue narrazioni si lega a distorsioni oniriche e fantastiche che rasentano il terrore, o si apre a una dimensione quasi fantascientifica, come in Kentuki, l’ultimo romanzo in cui Samanta Schweblin inventa dei peluches animati che sono in realtà piccoli robot controllati a distanza da utenti anonimi, in grado di guidarli e osservare attraverso mini telecamere la vita quotidiana degli acquirenti. Una invenzione che implica sia per i protagonisti che per i lettori situazioni in cui la ragnatela virtuale in cui siamo immersi mostra al tempo stesso la sua natura minacciosa e una fragilità emozionale da cui sembra essere stata espulsa qualsiasi connessione con la realtà corporale. Abbiamo incontrato Samanta Schweblin a Roma, durante una sua visita recente.

Lei vive a Berlino ormai da nove anni, essendo una scrittrice argentina di origini europee. I suoi libri vengono pubblicati tanto in Europa quanto in America Latina. Come avverte il fatto di essere parte di questa realtà letteraria transnazionale e cosmopolita, cui appartengono ormai molti scrittori latinoamericani?
Sento di discendere dalla tradizione degli scrittori latinoamericani che vivevano in Europa negli anni sessanta, a Parigi o in Spagna, e che erano un po’ come degli ambasciatori, parlavano quattro lingue, erano coinvolti in questioni politiche, appoggiavano o condannavano di volta in volta diversi personaggi politici. La mia generazione, invece, sembra condividere molto meno la cosa pubblica, non perché apolitica o disincantata, ma perché partecipa in modo diverso. Il fatto che io viva a Berlino è stato la conseguenza della scelta di non vivere a Buenos Aires, sebbene sia una città che amo. C’è qualcosa nell’abitare fuori dal proprio paese che può suonare terribile, ma che mi è molto utile per scrivere: essere straniera mi permette di vivere in una bolla, di non lasciarmi coinvolgere più di tanto dalla vita della città. Mi sono sempre molto preoccupata di cosa sarebbe successo alla mia lingua madre, ricordavo quello che si diceva di Cortázar, che dopo trent’anni a Parigi aveva perso il suo spagnolo. In questi nove anni la mia lingua è in effetti molto cambiata, si è impregnata delle variazioni guatemalteche, messicane, cilene, colombiane, e questa confusione ora mi piace sia nei miei libri sia in quelli di altri autori, che funzionano un po’ come una mappa di tutte le città per le quali sono passati.

La sua opera narrativa è molto varia sia quanto a scrittura sia nei temi affrontati, e l’ultimo suo romanzo, «Kentuki», è un po’ una sintesi di una ulteriore evoluzione. Come possiamo situarlo all’interno del suo percorso?
Mi si chiede sempre a quale genere letterario iscrivere questo romanzo, se sia un libro di fantascienza, una distopia o altro, ma per la verità quando affronto un nuovo libro l’unica cosa che mi sta a cuore è la storia che chiede di essere raccontata, certo non il genere a cui farla appartenere. Con Kentuki è successo che arrivata a metà mi sono chiesta se volessi davvero affrontare l’argomento della tecnologia, che non mi aveva mai molto attratto. In un certo senso, ero orgogliosa di trovarmi fuori dalla mia zona di sicurezza, di star scrivendo qualcosa di completamente nuovo per me, declinato al futuro, rinunciando alla mia solita voce in prima persona. Kentuki è un romanzo corale, in un certo senso direi che è il mio esordio al romanzo dato che Distancia de rescate è piuttosto un racconto lungo. Dopo aver terminato il libro mi divenne chiaro che nessuna di quelle che pensavo come novità era del tutto tale: in fondo non si sfugge facilmente dai propri temi, e dunque – come già negli altri libri – tornavo a parlare di solitudine, di incomunicabilità, dell’importanza del linguaggio, e cercavo di rispondere alle stesse domande di sempre.

Lei è rimasta fedele, nel tempo, al suo stile fatto di frasi brevi e precise, esigenti, che passano attraverso un lavoro molto severo sulla lingua.
Ricordo che anni fa, quando lavoravo ai miei primi libri, mi capitava spesso di aprire un racconto qualsiasi di Adolfo Bioy Casares, cominciare a leggere e pensare quanto doveva aver lavorato per scrivere quelle tre righe perfette. Il mio progetto di scrittura è guidato da una certa volontà di controllo: so di scrivere parole che potrebbero innescarne precisamente altre nella testa del lettore. E, a questo proposito, non ho mai capito bene la questione relativa a quelli che sono stati chiamati i miei «finali aperti»: è una formula che tutto sommato non mi trova d’accordo. Il fatto che non sia tutto evidente non significa che il finale non esiste: è lì, il lettore deve scoprirlo, gli elementi ci sono tutti. Lo stesso vale per l’idea di tensione, che non va intesa come se fosse in atto un thriller, né riguarda l’attesa di quanto accadrà nella scena successiva, perché la tensione è relativa a quel che può succedere tra una parola e l’altra, tra una riga e l’altra. Se non avverto tensione in un determinato punto, mi annoio io prima degli altri, sento come se il testo perdesse energia, come se si rompesse qualcosa.

Come le è riuscito di mantenere questa tensione nel passaggio dalla forma breve dei suoi eccellenti racconti, iscritti nella grande tradizione rioplatense, alla forma intermedia di «Distancia de rescate», al romanzo vero e proprio, «Kentuki»?
Con Distancia de rescate ho un po’ ingannato il mercato, perché era un racconto lungo che ha fatto passare, nella veste editoriale, come romanzo; invece, fin dalla prima stesura di Kentuki è emersa la sua forma corale, il fatto che la vicenda avrebbe potuto riguardare un po’ tutti e al tempo stesso come questo implicasse collegamenti tra le diverse storie del libro. Tuttavia, qualcosa della forma breve rimane anche in Kentuki, dove ogni capitolo mantiene una forte energia. Evidentemente ho una preferenza per il genere racconto e se poi sono passata al romanzo è perché non riuscivo a dire quel che volevo in poche pagine: avevo bisogno di scriverne almeno 250.

Fra le pagine di «Kentuki» prende forma una certa riflessione sul potere nelle relazioni interpersonali. Il Kentuki è un peluche che si può comprare in un negozio, e che porta in sé un meccanismo controllato a distanza da un tablet nelle mani di un qualche utente: apparentemente dunque il peluche è in potere di questi utenti. Ma l’acquirente del Kentuki, che non coincide con l’utente, può spegnerlo, metterlo sotto a un letto, insultarlo, distruggerlo. Come ha concepito queste relazioni così complesse, con continui cambi di prospettiva?
Ho avuto ben presente questo gioco fin dall’inizio: al principio ero più attratta dal controllore del Kentuki, lo pensavo come un voyeur. Poi il romanzo stesso mi ha obbligata a preoccuparmi di dare un ruolo anche al compratore. Ho visto prendere forma a un lato perverso dei diversi personaggi che non avevo previsto. C’è stato anche un momento in cui mi sono ritrovata con più storie di quante fossero necessarie al romanzo, e dunque ho cercato di individuare quelle davvero essenziali, e tali le consideravo appunto perché si prestavano a rappresentare alcune relazioni di potere fondamentali.