«Se potessi tirar fuori una canzone da questo mio cuore affannato, avrebbe la forma delle colline del Blue Ridge e l’aroma del caprifoglio; se potessi fare una canzone capace di riportarmi indietro nel tempo, me l’avvolgerei intorno all’anima per cantare degli ultimi e degli esclusi, per farmi sapere chi sono e chi sono stato, da dove vengo e dove sono – se potessi scrivere una canzone».

Berea, Kentucky, è una piccola città intorno a una grande università. Berea College fu fondato nel 1855 dagli abolizionisti in lotta contro la schiavitù; per più di mezzo secolo fu l’unico posto in tutto il Sud in cui bianchi e neri potessero studiare e vivere insieme, finché le leggi segregazioniste non glielo vietarono.

Adesso Berea è impegnato soprattutto sulla difesa del territorio e dell’ambiente (la mattina abbiamo sentito una lezione di Vandana Shiva sulle «monoculture della mente») e si occupa di formare i giovani della regione appalachiana («è una macchina per la fuga dei cervelli», mi dicono: «insegna ai nostri ragazzi le competenze che gli servono per andarsene via»).

La canzone l’ha scritta Samuel Gleaves, un ragazzo di 23 anni appena uscito dal college. Lui è uno di quelli che non se ne andranno. Stasera siamo a casa sua. Mi hanno portato qui Mike e Carrie Kline, due protagonisti della musica tradizionale degli Appalacchi e del suo legame con le lotte operaie e per l’ambiente. Stasera vengono un po’ di amici e vicini e si fa musica. Ma prima Sam e tutti gli altri si fanno quattro ore a cucinare intorno ai fornelli, sbucciando patate, affettando mele, e nel frattempo improvvisando complicati ricami di armonie gospel. Mi vengono in mente i compagni della Lega di Cultura di Piadena e la loro festa di tutte le primavere: il cibo, la musica, l’amicizia, l’uguaglianza sono inseparabili, sono la stessa cosa.

Banjo e fiddle

Mike e Carrie mi hanno parlato di Sam Gleaves come della voce più interessante della musica tradizionale – country, old-time, bluegrass – in un territorio ricco di musica come l’Appalachia. Ma quando tutti si siedono in salotto, partono le chitarre, i banjo e le fiddle, e fra una canzone tradizionale e l’altra Mike e Carrie suonano anche dei brani di Sam, mi accorgo che è qualcosa di più di una promessa della musica regionale. Non capita spesso di trovarsi inaspettatamente davanti a un talento purissimo, canzoni che sembrano venire dalla profondità della storia eppure hanno tutta la freschezza degli anni di Sam, universali perché sono profondamente locali, radicate in una solidissima cultura musicale e una nitida coscienza dei diritti.

L’unico confronto possibile (e la stessa emozione all’incontro), è con Hazel Dickens, la radicale voce bluegrass delle montagne, delle miniere, e delle loro lotte. Sam mi regala il suo Cd. La prima traccia parla dei vestiti di lavoro di tre generazioni di minatori, passati e rinnovati di padre in figlio – sempre gli stessi, e sempre nuovi.

Minatori e amore

La seconda è una canzone d’amore ispirata proprio a un brano di Hazel Dickens – solo ascoltando il resto mi renderò conto di quanto è sovversiva. La sovversione esplicita comincia con la terza traccia, un brano dal suono tradizionale che va dritto contro la grana conservatrice della tradizione. Si intitola «Ain’t We Brothers?» – non siamo fratelli? – e dà il titolo al disco.

È la storia di Sam Williams, un minatore del West Virginia che nel 2010 fece causa alla compagnia per cui lavorava per le discriminazioni e il bullismo di cui era oggetto da parte dei suoi stessi compagni di lavoro a causa del fatto che vive apertamente con il suo compagno. «Dio ci ha messo tempo e impegno a fare ognuno di noi come ci ha fatti», dice la canzone; «sono cresciuto insieme con voi, ci siamo tuffati insieme nel fiume, mi sono sbucciato le ginocchia correndo e cadendo con voi. Ci ho messo del tempo a capire che ero altro, ma questo non mi impediva di spaccare la legna e di strizzare la camicia sudata dopo un giorno di lavoro. Prima di tutto, come voi, sono un operaio; mi metto la tuta e scendo in miniera, e voi mi sparlate alle spalle, mi chiamate con ogni genere di nomi eccetto figlio di Dio. Non mi va di litigare, ma vi chiedo solo: ma non siamo anche noi carne e sangue, non siamo fratelli anche noi?».

Il sessismo del Sud rurale

Sam Gleaves enuncia il punto di vista gay con elementare e provocatoria naturalezza dall’interno di una cultura profondamente sessista come quella del Sud rurale americano. Non manca la protesta: «The Golden Rule» reagisce alla legge del Kentucky che, in nome della libertà religiosa, estende l’obiezione di coscienza a tutti gli operatori pubblici o su pubblica licenza, autorizzandoli a rifiutare di servire chiunque gli sembri in contraddizione con le loro convinzioni religiose – cioè, se sei omosessuale, musulmano o una coppia mista, l’impiegato delle poste può rifiutare di venderti un francobollo. «Non sono uno che va tanto in chiesa», canta Sam, «ma non ci avevano insegnato a trattare gli altri come vorresti che trattassero te?».

Ma la cosa sovversiva non è la protesta: è l’amore. «Se due ragazzi della Virginia si possono innamorare, lo fanno e basta», canta nella canzone dedicata al suo compagno: l’amore è amore e basta. Tanto è vero che la canzone continua con il refrain di uno dei brani tradizionali più amati: «Nel mio cuore sei l’amore, ti accoglierò sulla mia porta, ti darò il benvenuto sull’uscio, è te che voglio conquistare».

Musicalmente e poeticamente, Sam Gleaves evoca Hazel Dickens; politicamente e umanamente, fa pensare alla messicana Graciela Vargas, l’artista che, in altri linguaggi e altri contesti, sovverte le convenzioni delle canzoni d’amore semplicemente cantandole con la sua intensa voce lesbica.

Sam fa lo stesso: prende una canzone della Carter Family, «My Dixie Darling», e gli basta cambiare una sillaba per spostarla di campo (chissà che avrebbero detto i Carter, che nei manifesti dei loro concerti annunciavano: «questo spettacolo è moralmente sano». Ma è moralmente sanissima, oltre che musicalmente godibile, anche la versione di Sam).

Esegue «Johnny», una canzone di tradizione orale, in una cristallina vocalità a cappella che sembra venire dalle profondità filologiche del folklore, ma ne sovverte il senso. La voce narrante si innamora di «Johnny» e rompe con la famiglia per andarsene con lui.

Siamo abituati a dare per scontato che sia una voce femminile; ma Sam Gleaves ce la fa sentire come la storia non solo di un amore contrastato, ma anche di un coming out, dei prezzi pagati, dei conflitti dolorosi, e della gioia della scelta.

Questo è infine la tradizione: dire il nuovo con gli strumenti ereditati dall’antico; avere un’età di ventitre anni e una storia di due secoli. Dice Bruce Springsteen: abbiamo imparato di più da tre minuti di disco che da anni di scuola.

Da un incontro con Samuel Gleaves e da tre minuti del suo disco ho imparato cose che sapevo con la ragione e l’intelligenza ma che adesso conosco con i sentimenti.