Crisi, rimpasto, scosse telluriche di vario genere? Matteo Salvini, vincitore indiscusso nel test abruzzese, non ne vuole sentir parlare. Passa la giornata cercando di rassicurare gli alleati, consapevole che i rischi per la tenuta del governo vengono tutti dall’eventualità che i pentastellati perdano la testa e facciano qualche pazzia: «Per il governo non cambia nulla. Non credo che i 5 Stelle debbano temere nulla e nemmeno dovrebbero farne un dramma: è una battuta d’arresto e il vero sconfitto è il Pd». Del resto il leader leghista aveva passato la notte del trionfo a sedare i bollenti spiriti dei suoi pasdaran: nessuno si immagini di passare all’incasso subito.

Salvini non vuole la crisi, considera il ribaltone sognato da Berlusconi una jattura, non mira neppure alle elezioni, neppure dopo le europee. Certificherebbero rapporti di forza che, nel suo schema strategico, non gli sono ancora abbastanza favorevoli. Ci vuole tempo per spianare definitivamente quel che resta di Forza Italia e vampirizzare fino all’ultima stilla di sangue i 5S. Le pressioni corali di Fi sono destinate a restare inascoltate. Non a caso il vicepremier riesce a non nominare mai il centrodestra, pur essendo la coalizione vincente in Abruzzo.

IL PREMIER GIUSEPPE Conte la pensa come lui, e per lo stesso motivo: la paura della crisi. «Non credo che per il governo centrale cambi nulla», assicura a metà mattinata. E’ vero solo in parte. Sui punti sensibili dell’agenda già all’ordine del giorno nel vertice notturno (peraltro in forse) di ieri senza Luigi Di Maio, da Bankitalia alla politica estera, la bilancia penderà d’ora in poi maggiormente a favore della Lega. Ma senza esagerare: l’imperativo è tranquillizzare i soci. I quali tutto sono tranne che tranquilli. Il silenzio di Di Maio e di Alessandro Di Battista, ieri, è stato clamoroso. Tra i vertici dei 5S l’unico a trovare la forza di pigolare è stato Danilo Toninelli: «Siamo un po’ delusi ma per la popolazione abruzzese». Per il resto le seconde file hanno mantenuto un perfetto stile democristiano d’antan, negando l’evidenza in nome di tutti gli alibi possibili e anche qualcuno in più.

Non significa che nel percorso dei prossimi mesi manchino mine potenzialmente letali. Per quanto Salvini voglia evitare a tutti i costi la crisi ci sono tre punti che non potrebbero essere tollerati. Il primo è il voto in giunta sull’autorizzazione a procedere contro di lui. Il Movimento 5 Stelle era orientato a votare contro la richiesta. Lo smacco abruzzese potrebbe rimettere in forse quella scelta, del resto ancora non ufficialmente dichiarata. «Un voto per l’autorizzazione avrebbe conseguenze sul governo», avverte il ministro Centinaio, uno dei leghisti più vicini al capo. Ma non ci sarebbe neppure bisogno di dirlo. Un simile voto equivarrebbe per il governo e per la maggioranza gialloverde a una sentenza di morte.

La crisi non esploderebbe subito ma alla primissima occasione valida. Il secondo nodo nevralgico è la legge sulle autonomie, che penalizza le regioni del sud, principale serbatoio di voti pentastellati. Per la Lega è irrinunciabile. I ministri del Movimento storcono il naso ma non a caso Salvini la ha inserita ieri, insieme all’acqua pubblica e alla legittima difesa, nell’elenco dei provvedimenti da varare subito.

LA VERA TRAPPOLA si chiama però Tav. Il voto di domenica rende tutto ancora più difficile. Per i 5S dare il via libera alla Tav, dopo una simile sconfitta, significherebbe scegliere il suicidio. Per la Lega, che in campagna elettorale ha sbandierato proprio la necessità di incrementare le opere, è la vittoria a rendere impossibile una resa. «Non possiamo tornare indietro sulla Tav né su niente. Dobbiamo fare il contrario, anche perché solo così aumentiamo il Pil. Certo si può risparmiare e mettere quel che si risparmia per la tratta Roma-Pescara di cui parlano i 5 Stelle. Ma tornare indietro non si può», commenta un alto ufficiale leghista. La sola via d’uscita che la Lega lascia ai soci è il referendum regionale. Per i grillini sarebbe una sconfitta piena ma almeno salverebbero la faccia.

Sempre che l’Europa ne lasci il tempo. Per ora reclama invece una decisione in tempi celeri, pena la cancellazione dei fondi europei.

Se passerà indenne questi scogli il governo arriverà alle elezioni europee. Ieri Salvini, per rassicurare i soci, spiegava che quelle abruzzesi erano «elezioni amministrative, non politiche come le europee». Se quella «prova politica» confermerà i rapporti di forza di domenica, allora sì che la Lega qualcosa chiederà: un rimpasto, senza toccare i dicasteri dei 5 Stelle ma solo quelli tecnici. Anzi «quello tecnico»: l’Economia.