Stavolta, forse per la prima volta dalla firma del «contratto», la distanza tra i soci contraenti del medesimo è tanto palese che nemmeno i vicepremier gemelli, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, riescono a camuffarla. Al contrario sono proprio loro a mettere in scena il dissenso latente sul primo e per ora unico atto di governo: il decreto Dignità. «E’ un buon inizio e Di Maio ha fatto un buon lavoro», assicura Salvini dall’assemblea Ania 2018 fingendosi conciliante. Certo, aggiunge però, «il Parlamento cercherà di renderlo più efficiente e produttivo» e non è certo un caso se riprende di peso alcuni dei principali appunti mossi al provvedimento dalle aziende, quelli sull’eccessiva burocratizzazione indotta dal decreto: «Il governo è per semplificare la vita, non per complicarla».

STAVOLTA DI MAIO DEVE per forza replicare a stretto giro e a muso duro: «Il Parlamento è sovrano e se le modifiche vanno nell’ottica del miglioramento saremo disponibili. Se invece vogliono annacquare, allora saremo un argine». Nessuno dei due leader, peraltro, specifica cosa sia «da migliorare» e cosa significherebbe invece «annacquare». E’ chiaro che solo su due punti, le misure contro le delocalizzazioni e quelle contro il gioco d’azzardo, i due partiti marciano affiancati. Su tutto il resto le cose stanno diversamente.

Al primo posto nella lista del Carroccio c’è la reintroduzione dei voucher, reclamata a gran voce dal ministro leghista dell’Agricoltura Gianmarco Centinaio, ma sponsorizzata anche dal ministro dell’Economia Giovanni Tria. Forza Italia non ha perso tempo e ieri ha presentato un apposito ddl, anche con il palese obiettivo di piazzare un primo cuneo tra i verdi amici e i gialli nemici. «Meno Di Maio, più Centinaio» sintetizza la presidente del senatori azzurri Anna Maria Bernini, in linea con l’ordine di scuderia che ha chiesto a tutti i forzisti di attaccare quanto più possibile il Movimento 5 Stelle vellicando però il Carroccio. «L’abolizione dei voucher è stata un grandissimo errore: è semplicemente aumentato il lavoro nero», duetta la presidente dei deputati Maria Stella Gelmini.

IL PROBLEMA È CHE a commettere quell’«errore» sono stati proprio i 5 Stelle, nella scorsa legislatura schieratissimi a favore dell’abolizione. Adesso Di Maio è favorevole alla retromarcia, anche perché il ritorno dei buoni che erano diventati il simbolo stesso del precariato figura nel contratto di governo. I migranti devono essere respinti nelle acque del Mediterraneo, ma meglio di loro per raccogliere frutta sotto il sole di agosto non se ne trovano. Prima di rispedirli a casa loro sarà quindi il caso di ripristinare la peggior forma di pagamento sin qui ideata dagli ingegneri dei moderni rapporti di lavoro.

MA SE SUI VOUCHER il vicepremier pentastellato è pronto a cedere, accontentando così il vasto fronte a cui persino il suo timido decreto sembra un’insopportabile lesione alla libertà di sfruttamento, nel Movimento gli umori sono diversi. In fondo il decreto deve servire anche a certificare che quelle dei 5 Stelle contro il precariato non sono solo parole vuote. Partire ripristinando il marchio stesso del precariato, con la Cgil già sul sentiero di guerra e la segretaria generale Susanna Camusso tassativa, «Noi siamo assolutamente contrari», non è il modo migliore per centrare l’obiettivo. Ma alla fine almeno in alcuni settori, in particolare quelli reclamati dal ministro Centinaio cioè l’agricoltura e il turismo, i buoni della vergogna probabilmente finiranno per tornare.

SOLO CHE I «MIGLIORAMENTI» richiesti dal Carroccio non si fermano qui. Anche perché una parte della sua base elettorale, quella più tradizionale e nordica, lo zoccolo duro, martella contro la stretta dei contratti a termine, tuona contro l’aumento dei contributi dello 0,5% a ogni rinnovo, ha da ridire sul numero massimo dei rinnovi consentiti e non gradisce neppure l’aumento cospicuo dell’indennizzo per i licenziamenti senza giusta causa. Su quelle modifiche, richieste anche da Forza Italia che accusa il decreto di essere stato «dettato dalla Cgil», e dal Pd che fa quadrato intorno a ogni particolare del Jobs Act, in parlamento si troverebbe, al momento della conversione, una maggioranza trasversale anche senza i 5S. Solo che sarebbe la fine della maggioranza e del governo.
Ecco perché all’improvviso il solito ricorso alla fiducia non pare più una bestemmia.