La tv pubblica perde ascolti in settori importanti come il Tg1; non rispetta il pluralismo regalando a Salvini la primazia nei tempi di parola dei suoi programmi d’informazione (dati Agcom compresi quelli dell’ultimo mese); fatica a tenere la concorrenza di Mediaset; l’Agcom stessa è in regime di prorogatio da luglio scorso perché il governo e il parlamento non riesce a darle un nuovo board. E l’unica idea del ministro competente è la riduzione del canone Rai, tra i più bassi d’Europa.

Quando, grazie al solerte Anzaldi, se ne era fatto promotore il partitino di Renzi, che aveva già utilizzato l’argomento per lucrare consensi elettorali che non vennero, avevamo sorriso dell’ennesima trovata dell’ultimo espediente alla ricerca della visibilità. Non così di fronte alle dichiarazioni di questi giorni di Di Maio e del ministro Patuanelli, la cui improvvida uscita dà la misura della confusione che regna nella leadership pentastellata.

Non solo in fatto di politiche televisive: saremmo curiosi di sapere che cosa ne pensa il presidente della Camera Fico, già a capo della commissione di Vigilanza nella scorsa legislatura. Il nostro paese è sempre rimasto al di sotto degli altri principali confratelli europei per quanto riguarda il canone per la tv pubblica, che tra l’altro è sceso negli ultimi anni da 113 a 90 euro.

Non proprio un salasso economico per le tasche dei contribuenti. In Francia è di 130 euro, in Germania di 215, in Gran Bretagna di 174, in Svezia di 240, in Austria di oltre 250, in Belgio di 150, in Irlanda di 160, in Croazia di 137, in Slovenia di 132, mentre in Svizzera, dove un referendum per l’abolizione è stato tra l’altro bocciato, si paga per la tv oltre 300 euro, come accade anche in Danimarca. Solo la Grecia ha un canone più basso, solo in Portogallo, nei Paesi bassi e in Spagna non si paga canone ( e spesso le rispettive televisioni non competono per qualità ed ascolti con quella italiana).

Altre sono le urgenze. A cominciare dalla messa in sicurezza della Rai con una Fondazione che ne garantisca il più possibile l’autonomia del management e le scelte editoriali, allontanandola dalla soffocante presa della politica che la legge del luglio 2015 ha ulteriormente rafforzato. Per non dire della questione, del duopolio, della prepotenza di Mediaset nel settore privato, grazie al condono del ’90 che allora le garantì il possesso di tre reti generaliste, più oggi una quindicina di nicchia o a pagamento. Tutte in mano ad imprenditore che fino all’altro ieri era presidente del consiglio, ma il cui declino politico non ha disinnescato affatto la torsione politica fortemente destrorsa del principale polo commerciale nazionale, anche qui testimoniato dai dati mensilmente pubblicati dall’Authority. Altro che canone Rai.