«Da soli non si va da nessuna parte: a livello nazionale il centrodestra avrebbe stravinto». Nel giorno della mazzata, la prima affibbiatagli dagli elettori e non dai giochi dei partiti, quello di Matteo Salvini è un peana alla coalizione. Nessuna recriminazione, nessun ripensamento, nessuna autocritica. L’uomo è fatto così: punta sul rilancio continuo senza fermarsi un attimo a riflettere: «Rifarei tutto, anche il citofono. Il cambio è solo rimandato». Probabilmente sa che, se avesse tenuto un profilo più basso e non avesse trasformato le elezioni emiliane in un referendum su se stesso, sarebbe uscito molto meglio dal voto di domenica: in termini di immagine e probabilmente anche di voti. Sa anche che qualche voce critica nella «sua» Lega comincia timidamente a levarsi, anche se sono ancora sussurri. Ma è convinto di aver fatto la cosa giusta: la sola occasione per provare la spallata, senza doversi rassegnare alla guerra di posizione, era questa. Ha provato a coglierla. È andata male. Avanti come se nulla fosse.

Solo che invece qualcosa è successo nel centrodestra. Salvini, domenica, ha perso due sfide, non una sola. Quella conclamata contro Stefano Bonaccini, con la sorte del governo come posta in gioco, e quella sotterranea nella destra, con in ballo la sua onnipotenza. Qualcosa di più simile al comando assoluto che a una semplice leadership. Tra le due sconfitte quest’ultima dovrebbe forse impensierirlo di più. Fratelli d’Italia è arrivata in Emilia-Romagna ben oltre l’asticella prevista dai sondaggi. «Siamo l’unica forza del centrodestra che aumenta, i veri vincitori», rivendica Giorgia Meloni. Tabella alla mano, si scopre che i voti persi da Salvini rispetto alle europee di maggio sono finiti nei forzieri di sorella Giorgia, che non è già più in condizioni di vassallaggio e può trattare con il leghista, se non su postazioni di parità, di certo ponendo condizioni. A partire dalla futura candidatura per il Comune di Roma. «Siamo più radicati», segnalano con tono perentorio i Fratelli di Giorgia.

Ma questo è ancora il meno. Il guaio grosso veste d’azzurro. È Forza Italia, da sempre insofferente nei confronti del primato leghista, da sempre distante dai toni da osteria che il leader del Carroccio adora, e che ora tira fuori l’artiglieria. Anche a costo di pagare in Emilia prezzi altissimi. In Calabria il partito di Silvio Berlusconi supera la Lega, che dimezza la percentuale rispetto ad appena otto mesi fa. Ma il risultato apparente trae in inganno. L’elettorato azzurro si è infatti diviso tra diverse liste. Il vantaggio di Arcore è in realtà quasi schiacciante. Significa che alcuni centri di potere che in maggio si erano orientati verso la Lega hanno scelto di puntare di nuovo su Forza Italia, e si sa quanto pesi quel tipo di notabilato nel sud.

Ma nel nord, nell’opulenta Emilia, è anche peggio. Qui Fi è quasi scomparsa. Un tracollo impensabile e incomprensibile se non con una scelta di massa dell’elettorato forzista, difficilmente «spontanea», di votare il candidato del centrosinistra Bonaccini senza neppure appigliarsi al voto disgiunto. È un segnale secco: senza Forza Italia, senza l’ala moderata della coalizione, per Salvini non c’è strada. La linea estremista può calamitare consensi, ma insufficienti per vincere le elezioni. L’azzurro Renato Brunetta, vicino a Mara Carfagna, è esplicito: «Il centrodestra sovranista ha spaventato gli elettori. Forza Italia è sempre stata coerente e lontana dai pasticci populisti sulla giustizia». Pasticci ai quali, invece, la Lega ha partecipato ampiamente, votando in prima battuta la legge di Alfonso Bonafede sulla prescrizione. Segnali e scricchiolii univoci: forse l’era del potere assoluto nella destra, per Matteo Salvini, è già finita.