«Non si può morire per andare a vedere una partita di pallone» è il commento del ministro dell’interno, Matteo Salvini. «Convocherò sia le società di calcio sia i responsabili dei tifosi di tutta Italia delle serie A e B – promette -, perché il calcio torni ad essere un momento di divertimento e non di violenza. Vedremo di fare quello che non sono riusciti a fare altri».

Lo sfoggio di efficienza arriva da Pesaro, dove il leader leghista è andato ieri dopo l’omicidio del fratello di un pentito di ’ndrangheta. Assassinio conseguenza di un’evidente falla nella sicurezza. Il titolare del Viminale, poi, ha omesso del tutto di commentare i beceri cori razzisti della curva interista contro il giocatore del Napoli, Kalidou Koulibaly. E, sul tema sospensione partita, se n’è lavato le mani: «Non sono il presidente della Lega Calcio, né faccio l’arbitro e quella era una scelta che spettava all’arbitro». Dal Pd romano replicano: «Salvini non vuole prendere le distanze da quei razzisti che ogni giorno incita dai social network. Ci risparmi la frottola che debbano essere altri a dover decidere, soprattutto lui che fino a ieri pretendeva addirittura di fare l’allenatore al posto di Rino Gattuso».
L’invito al Viminale rivolto alle tifoserie fa pensare a uno scambio di cortesie visto che il 16 dicembre il vicepremier leghista ha partecipato alla festa per i 50 anni della Curva Sud del Milan, organizzata all’Arena Civica. Il ministro dell’interni si è fatto fotografare mentre stringe la mano e poi chiacchiera spalla a spalla con il capo ultrà Luca Lucci, appena scarcerato dopo aver patteggiato una condanna a un anno e mezzo per traffico di droga.

Di fronte alle polemiche, Salvini non ha fatto una piega: «Io stesso sono indagato. Sono un indagato in mezzo ad altri indagati. Questi tifosi sono persone perbene, pacifiche, tranquille». Poi però gli hanno fatto notare che Lucci usava la sede dell’associazione della tifoseria per lo spaccio, un affare condotto con bande di albanesi e affiliati alla ’ndrangheta.

Tra i suoi precedenti daspo e pestaggi: nel 2009 aggredì un tifoso interista così violentemente da fargli perdere un occhio. Solo quando il fuoco di fila di critiche è diventato ingestibile persino per un mago dei social come il leader del Carroccio, è arrivata la marcia in dietro: «Non lo rifarei», ha dovuto ammettere.
È toccato allora al sottosegretario alla presidenza del consiglio con delega allo sport, Giancarlo Giorgetti, aggiustare un po’ il tiro per conto della Lega: «Risse e agguati sono stati espulsi dagli stadi ma continuano a verificarsi fuori.

I morti, le aggressioni, il razzismo dovrebbero indurre la federazione alla chiusura al pubblico dei medesimi stadi, più che sospendere le partite. Gli oneri a carico delle società, già previsti dal decreto Salvini, gravino in modo differenziato per le società che collaborano a estirpare il fenomeno». Il veterano della Lega Roberto Calderoli, vice presidente del Senato, chiede la sospensione per un turno del campionato ma i diritti Tv non si fermano neppure con il governo del cambiamento.