Matteo Salvini è definitivo: «Non si può dire ’O io o nessuno’. Se Di Maio insiste con ’Io, io, io o nessuno’ gli rispondo ’amico mio non se ne fa niente’». E’ la risposta al tam tam pentastellato fatto partire dallo stesso Di Maio e confermato da un suo fedelissimo, Alfonso Bonafede, «ministro della Giustizia» dell’ipotetico governo M5S: «Di Maio premier o niente, perché se ai cittadini presentiamo un altro nome, un non eletto, li allontaniamo definitivamente dalla politica».

SALVINI BLINDA LA PORTA. Ha in mente un percorso opposto, un dialogo basato proprio sulla flessibilità. Conferma la disponibilità a fare un passo indietro per palazzo Chigi, lasciando il posto a una figura terza, né lui né Luigi Di Maio, purché si tratti «di un politico» e non di un tecnico. Per se stesso non nasconde di vedere bene una collocazione al Viminale, nei panni di ministro degli Interni. Ma oltre non si può andare. La Lega, ricorda, «ha già fatto passi indietro sull’elezione dei presidenti. Ma non è che si possono fare passi indietro su passi indietro». Il braccio destro Giorgetti, appena eletto capogruppo alla Camera (al Senato è stato confermato Centinaio), è altrettanto tassativo, pur essendo il diplomatico per eccellenza del Carroccio: «Politica è avere princìpi chiari ma anche capacità di mediare. Se vuole fare il premier Di Maio può chiedere al Pd. Magari glielo riconoscono. Improbabile, ma mai dire mai».

La replica di Di Maio è inamovibile: «Non mi impunto per una questione personale ma per una questione di credibilità della democrazia. Il 17% degli italiani ha votato per Salvini premier. Oltre il 32% ha votato per il sottoscritto. E’ la volontà popolare che conta e io farò di tutto perché venga soddisfatta». Muro contro muro.

Ma palazzo Chigi non è il solo pomo della discordia. Su quel fronte Di Maio potrebbe anche rassegnarsi a mediare. L’altro nodo indistricabile si chiama Silvio Berlusconi. Per M5S un’alleanza esplicita con «il Caimano», con tanto di incontri e fotografie devastanti e video deflagranti, è impraticabile. Tra le righe l’avance di Di Maio suona proprio come invito rivolto alla Lega perché molli l’ingombrante e impresentabile alleato. E’ più di quanto un Salvini che aspira alla guida dell’intera destra possa concedere. La risposta è senza appello: «Se si dice ’Fuori Fi’ non se ne fa niente. Noi proponiamo un programma e un governo per cinque anni, non per cinque mesi. Ma non è il momento per preclusioni o capricci».

SBOCCIATO MENO di una settimana fa grazie alla manovra congiunta sull’elezione dei presidenti delle camere, l’idillio tra Lega e M5S sembra quindi già finito. Non è così naturalmente. Di Maio e Salvini dovrebbero incontrarsi la prossima settimana, dopo l’avvio delle consultazioni. Ma è un particolare: i contatti sono continui. Le rispettive diplomazie, dal canto loro, hanno già attivato numerosi canali. Lo stesso Salvini, dopo aver fissato i paletti, torna ai toni dialoganti: «Conoscevo poco i 5S. Ho trovato persone ragionevoli e costruttive. Che ci siano schermaglie è ovvio, ma poi, intorno a un tavolo, si può ragionare».

LA TRATTATIVA È APPENA cominciata e la decisione da parte di entrambi gli attori principali di mettere subito le carte in tavola, invece di rinviare il momento di affrontare gli ostacoli principali come d’uso in politica, dimostra che mirano davvero a trovare una quadra. Quegli ostacoli sono però molto grossi e la marcia verso l’accordo sarà assai travagliata. Per M5S sfidare una base nutrita per anni a dosi massicce di antiberlusconismo è arduo. Per dar vita a una maggioranza dovranno non solo accordarsi sulla comune rinuncia a palazzo Chigi, o in alternativa a una formula scivolosa come la staffetta, ma anche trovare il modo di aggirare lo scoglio Berlusconi. Una missione quasi impossibile, anche perché l’«intoppo» non ha alcuna intenzione di togliersi di mezzo per fare un favore a Gigi e Matteo.

LE NUOVE CAPOGRUPPO azzurre sono Mariastella Gelmini alla Camera e Anna Maria Bernini al Senato. Sono tra le dirigenti forziste più capaci, ma sono anche vicinissime al presidente, molto più rigorosamente «berlusconiane» di quanto non fossero i predecessori. Con una presa così salda sui gruppi parlamentari Berlusconi, per quanto uscito ammaccato dalla partita delle presidenze, è in grado di vendere carissima la pelle.