A Matteo Salvini il fioretto non si confà. Sa usare solo la scimitarra e spesso si affetta da solo. Ieri ha aggiunto il suo mattoncino al muro che i partiti cercano di costruire per impedire a Draghi di succedere a Mattarella. Come gli capita di frequente è andato un tantinello oltre le righe: «Io faccio lo sforzo di stare con il Pd e Draghi se ne va? Abbiamo prolungato lo stato d’emergenza fino al 31 marzo e lui se ne va? Resti premier!». Il bello è che subito dopo chiede «una moratoria sulle dichiarazioni e sulle polemiche giornalistiche». Quando si dice coerenza. Ma il segnale è chiaro. Il leader della Lega non vuole Draghi presidente, soprattutto non vuole trovarsi stritolato nella tenaglia composta da Letta e Meloni, che proprio a Draghi guardano ogni giorno con maggior convinzione, anche se la scelta finale non è ancora stata fatta. La differenza è materiale, non ideologica. La leader di FdI vuole le elezioni, il segretario del Pd non le teme e sotto sotto probabilmente non gli dispiacerebbero. Salvini le teme come una jattura.

Rilancia subito Tajani, a nome del partito che esprime il solo candidato sfacciatamente in campo anche se ufficialmente nega e si tratta ovviamente di Berlusconi. «Che Draghi rimanga a palazzo Chigi è fatto che riguarda l’interesse nazionale. Lo dicono tutti e lo dico anche io», si lancia l’ex presidente del Parlamento europeo, in questo caso soprattutto ventriloquo del presidentissimo di Arcore. Berlusconi gioca su due tavoli. La sua prima seconda e terza opzione è se stesso. Ci crede, ci spera, ci prova. L’ex 5S De Falco, senatore ed ex capitano, sostiene di sapere con certezza che 7 pentastellati sarebbero già pronti a sostenere il candidato più improbabile della storia. Non è detto che abbia ragione ma di certo è proprio quel campo che gli emissari del Cavaliere stanno arando e che non si tratti di una missione impossibile è evidente, tanto più dato lo stato di sbandamento in cui versano i pargoli di Grillo.

Ma persino nel suo inguaribile titanismo, Berlusconi sa che l’ambito Colle potrebbe sfuggirgli di mano. Dunque è anche pronto a tirare fuori una carta di riserva. Si tratterebbe quasi certamente di quella con la Q, la regina, al secolo Letizia Brichetto Moratti. Di destra ma non sovranista, ben accetta nei salotti comme il faut e soprattutto donna. Con il passo indietro di un Berlusconi tanto forte da impedire ogni altra soluzione a darle la spinta sarebbe difficile fermarla. A Salvini non dispiacerebbe. Sarebbe un colpo ferale inflitto a tutti i suoi rivali: quello interno alla Lega, il draghiano Giorgetti, quella che gli contende la leadership della coalizione, sorella Giorgia, il capo del fronte avversario, l’acqua cheta Letta.
Il gioco però è pericoloso. Anche ieri Letta ha ripetuto che il prossimo presidente dovrà essere eletto «con la più larga maggioranza possibile». Sembra una banalità, ma solo per chi non conosce i bizantinismi del lessico politichese. Perché di figure in grado di riscuotere quel larghissimo consenso ce n’è in realtà una sola. Quel candidato in pectore, Draghi, finora non ha lanciato segnali se non molto impliciti ma è possibile, forse inevitabile, che qualcosa in più finisca per dire o far capire nel corso della conferenza stampa di fine anno, mercoledì prossimo. Dopo essersi fatto scippare il governo da Letta, il capo leghista rischia così di farsi sfilare di mano anche il Colle. Dal medesimo Letta e dall’infida alleata patriota.