Il rischio per Matteo Salvini ora è che la slavina scaturita dall’azzardo di un pessimo gioco sul pendio scosceso si trasformi in una esiziale valanga. Dopo aver perso per ingordigia un governo di cui era padre e padrone (anche se manterrà salde almeno per un anno ancora le presidenze di alcune commissioni parlamentari, postazioni ottime per sparare a pallettoni sulla nuova maggioranza giallo-rossa), ed aver realizzato, mentre saluta con commozione i suoi ex collaboratori del Viminale, che del suo lavoro di un anno in fondo rimarrà solo il dolore inferto a qualche centinaio di naufraghi più sventurati degli altri, il leader del Carroccio è terrorizzato adesso dai maldipancia interni al partito. Veri e propri sommovimenti, nella base e tra i vertici, che rischiano di costruire un muro, come quello di Orbán che gli piaceva tanto. Solo che attorno a se stesso.

Salvini lo sa, ed è per questo che, visibilmente su di giri come fosse alla consolle del Papeete, apre di buon mattino una diretta Facebook e per mezz’ora sputa rospi e fuoco, camminando nervosamente sotto lo sguardo di centinaia di migliaia di visitatori. Mentre parla velocemente, controlla il fluire dei messaggi istantanei, e li respira come fossero una droga che lo stimola, lo rincuora, lo incita. «Pensate che io molli? Mai, mai» (frasi che ripeterà per tutto il giorno ad ogni intervista). Annuncia le prossime tappe del tour che ha intrapreso nel Paese per tentare di riconquistare il terreno perso, l’«appuntamento di popolo» del 15 settembre a Pontida, i «gazebo in tutta Italia il 21 e 22 settembre per chiedere il rispetto del voto». E lancia una sorta di “marcia su Roma”, che non è proprio il 28 ottobre (anche perché il 27 si vota in Umbria e la Lega teme la possibile alleanza regionale tra Pd e M5S), ma è il 19 ottobre.

«Sarà la giornata dell’orgoglio italiano, da nord a sud – incita il leader leghista – della maggioranza silenziosa, laboriosa, operosa. Che vuole un governo che nasca in Italia, non a Parigi, Berlino o Bruxelles e che viene ricompensato per aver mandato via quel “nazista” di Salvini».

Il riferimento è all’ex commissario Ue al Bilancio Guenther Oettinger che ha accolto il nuovo governo Conte con fin troppo entusiasmo: «Bruxelles – ha detto ieri in un’intervista l’esponente della Cdu – è pronta a fare qualsiasi cosa per facilitare il lavoro del governo italiano quando entrerà in carica e per ricompensarlo». Un’occasione ghiotta per Salvini che grida ancora al complotto: «Parole disgustosamente chiare, di una gravità, di una volgarità incredibile.

Ricompensare per cosa? Cosa è stato svenduto?», ribatte. Anche se l’ultrà rigorista tedesco si riferiva ad un aiuto sul fronte dell’immigrazione: «Ci sarà più spazio per una politica sociale – aveva infatti aggiunto Oettinger – anche se i socialdemocratici sanno bene che il debito illimitato nell’eurozona è un danno per tutti».

Di contro però il segretario della Lega ha incassato ieri una manifestazione di «altissima stima e gratitudine» dal premier ungherese Viktor Orbán che in fondo tanto bene non gli ha mai voluto (basti ricordare il no al gruppo nell’europarlamento e le battutine alle sue spalle insieme alla cancelliera Merkel) ma al momento dei saluti tira fuori il fazzolettino: «Posso assicurarti che noi ungheresi non dimenticheremo mai che sei stato il primo leader europeo occidentale a voler fermare il flusso dei migranti illegali in Europa attraverso il Mediterraneo – gli scrive in una missiva Orbán – A prescindere dai futuri sviluppi politici in Italia e dal fatto che apparteniamo a partiti diversi in Europa, ti consideriamo un compagno di battaglia nella lotta per preservare le radici cristiane dell’Europa e fermare l’immigrazione».

Ma Salvini ora viaggia solo. Rifiuta pure l’invito di Giorgia Meloni a scendere in piazza insieme «non tra due mesi ma subito», «quando si voterà la fiducia al nuovo governo». Sta preparando la riscossa: «State tranquilli, non vi liberate di me con un giochino di palazzo, io non mollo. È solo un momento di attesa», è la haka del leghista che chiede ancora al presidente Mattarella di «restituire la parola non al dittatore Salvini, ma al popolo». Per rispetto della «democrazia» e «delle regole». Oggi però in barba alle regole e alla prassi non farà parte (stessa decisione l’ha presa Meloni con FdI)della delegazione del proprio partito che incontrerà per le consultazioni il premier incaricato Conte.