Sembra che il clima nel centrodestra sia pessimo. In realtà è anche peggiore di quanto non appaia. FdI è furibonda per lo sgarbo subìto dagli alleati nelle nomine del cda Rai. Non lo nasconde e non lo manda a dire. C’è chi parla di «schiaffi presi che vanno restituiti», come Crosetto, e chi minaccia la rottura della coalizione e quasi sbrana la forzista Licia Ronzulli, come il più intemperante Ignazio La Russa.

Ma la nota dolente sta nelle motivazioni della sberla. A porte chiuse i forzisti non esitano a definire i fratellini tricolori «mazzieri», parlano di minacce esplicite. In sintesi: se la capacità di Salvini di guidare una coalizione con la duttilità e anche la generosità di Berlusconi era molto dubbia, con una Giorgia Meloni che si sente il vento dell’opposizione nelle vele le cose sono molto peggiorate. Lo schiaffo del cda Rai è stata dunque un preciso avvertimento: è ora che la sorella, inebriata dai sondaggi, freni l’irruenza e inizi a muoversi con ben diverso tatto.

Ma non è solo questione di equilibri e giochi di potere. Anche gli indirizzi politici segnano ogni giorno di più uno scarto crescente tra i due partiti sino a pochi mesi fa quasi identici, Fratelli d’Italia e Lega. FdI non è cambiata molto, anche se la sua ruggente opposizione è in realtà di quelle che abbaiano senza mordere. Salvini, in compenso, sembra volersi trasformare in Aldo Moro: dall’orco del Papeete al mediatore tanto aperto al compromesso da suggerire quasi l’ambizione di una «convergenza parallela» con il Pd. Anche ieri ha chiesto a Letta di vedersi per trovare un punto d’incontro sul ddl Zan. La risposta è stata un tassativo «Non se ne parla», perché il segretario del Pd, per come ha giocato la partita puntando sul «testo intangibile», tutto vuole tranne che una mediazione. Ma sta di fatto che almeno per ora è proprio la Lega ad apparire come il partito che più si è spostato da posizioni ostruzionistiche e identiche a quelle di FdI a una linea che appare molto meno tetragona. Probabilmente, per come si sono messe le cose, lo spostamento, dopo mesi di ostruzionismo, non porterà a nulla ma la presa di distanza da FdI è indiscutibile.

Dove Salvini voglia andare a parare è oscuro ed è anzi lecito dubitare che lui stesso ne abbia una visione chiara. Con questa legge elettorale gli scontri tra Lega e FdI sono condannati a restare al livello dei dispetti. La coalizione non è un’opzione ma un obbligo e nella coalizione non si può affatto escludere che a prendere quel voto in più che deciderebbe il nome del premier sia proprio la rivale Meloni. Negli stati maggiori di Fi e Lega sperano che la bolla FdI si sgonfi in ottobre, quando gli investimenti del Pnrr inizieranno a dare i loro frutti. Ma è appunto solo una speranza.
Le cose sarebbero molto diverse con una legge proporzionale, che permetterebbe al nuovo Salvini «democristiano» di tentare una classica politica dei due forni, potendo scegliere tra una coalizione di unità o semiunità nazionale come l’attuale maggioranza o una maggioranza di centrodestra nella quale sarebbe lui a dettare legge. Ma la modifica della legge elettorale è una chimera che oltre tutto scontenterebbe gli alleati azzurri, destinati in quel caso a finire tritati.

Per trarsi fuori dai guai Salvini ha due sole strade: accelerare la marcia d’avvicinamento a Forza Italia fino a una vera unificazione, che però trova ostacoli a non finire proprio nel partito di Berlusconi, in modo da garantirsi la vittoria su Meloni alle elezioni oppure ripetere la sceneggiata di questa legislatura, cioè una coalizione che arriva unita al voto ma con tutti decisi a considerarsi liberi già dal giorno dopo.