Pochi altri come Salvatore Mannuzzu hanno narrato la grazia terrena dell’isola riuscendo a farne mondo altero, unico e incommensurabile. Il suo profilo di uomo nato nel 1930 e morto a 89 anni, magistrato prima e poi deputato indipendente nelle liste del Pci, scrittore e poeta, attraversa tutto il Novecento in modo unico e prezioso, proiettando nel futuro la Sardegna che tanto ha parlato nelle sue opere, in modo tutto diverso da come l’esperienza letteraria, storica e politica precedente e anche coeva ci ha consegnato e consegna.

A COMINCIARE dalla riflessione sulla sua esperienza di magistrato e presidente della Commissione a procedere della Camera, affidata nel 1998 a Il fantasma della giustizia, scritto in interlocuzione con il Centro per le riforme dello Stato e pubblicato dal Mulino, che varrebbe rileggere alla luce dei «non luogo a procedere» attuali, e già ci manca la sua voce limpida sul ruolo della magistratura e sulla sua indipendenza. Perché fin dagli esordi nel 1962 con il romanzo Un dodge a fari spenti, scritto con lo pseudonimo Giuseppe Zuri, fortissima è «l’equazione estetica della moralità», come notò in una memorabile recensione su «Ichnusa» il filosofo del diritto Antonio Pigliaru.
Mannuzzu ha infatti interloquito con la tradizione letteraria che lo ha preceduto facendo proprio il dilemma etico e morale che innerva Elias Portolu di Grazia Deledda, Paese d’ombre di Giuseppe Dessì, Il giorno del giudizio di Salvatore Satta: ovvero alcuni tra i romanzi più belli e significativi del Novecento italiano, tutti implicitamente – ma non poi tanto – evocati nelle sue opere che hanno, pur nella diversità di ognuna, la caratteristica costante del romanzo filosofico.

Nulla infatti della Sardegna identitaria è presente nella sua scrittura, né tantomeno forme di primitivismo senza tempo, quanto invece la natura, bellissima certo ma anche leopardianamente indifferente alle sorti degli uomini e delle donne che la attraversano spesso a detrimento della natura stessa, desolata eppur lancinante nel suo splendore. Che sia essa la natura del Montiferro, dell’Asinara, come di San Francisco o della Sassari che tanta parte ha nei suoi romanzi, narrata attraverso le sue strade e gli edifici simili a quelli di tante altre città italiane e al tempo stesso diversi, per la quadrimensionalità che li rende vivi nelle pagine delle sue opere: la chiesa di San Pietro di Silki, di cui sembra ancora di ascoltare la campana, i tigli di viale Caprera più volte evocati al punto d’essere ormai parte della geografia letteraria del Novecento.

E, INSIEME, LA TENSIONE all’indagine costante e mai arbitraria della vita e del vivere, in tutte le sue forme di alterità, pure se ontologicamente chiusa in se stessa ma costantemente interrogata e riflettuta: da quella dei ragazzini che diventano uomini con la guerra in corso ne Un dodge a fari spenti, a quella del giudice Garau, la cui morte nel fiore degli anni e di una apparente fulgida maturità è oggetto d’indagine in Procedura, del 1988 ma ambientato durante il sequestro Moro; indagine ripresa e variata con altri personaggi e protagonisti ne Il terzo suono, del 1995, perché «ogni inchiesta, anche la più misera, è come una tragedia greca».
Passando poi attraverso l’incanto fragile del giovane Sergio di Un morso di formica, del 1989, guardato e visto con gli occhi dello zio Piero che ne intuisce la tragicità senza riuscire a scalfirla. Mentre i racconti del 1992 sono dedicati al difficile rapporto con La figlia perduta, e il bellissimo e pietroso racconto di vite perdute e perse a sé stesse de Le ceneri del Montiferro è ambientato tra la Sardegna e Roma negli anni Cinquanta e pubblicato nel 1994; e al tempo infinito e sospeso di notte in traghetto è dedicato Il catalogo, del 2000, in cui due uomini si raccontano i loro – comuni e condivisi – amori (e viene anche citato il manifesto).

UNA ALTERITÀ ANIMATA di donne e uomini che non hanno certezza di sé né sovente dei propri corpi desideranti abita infatti le opere di Salvatore Mannuzzu, che scherza e gioca con il proprio io narrante spesso mascherandosi sotto il nome di Piero o altresì nelle vesti di un io narrante che elabora il lutto di donne amate e perdute, come quelle rimembrate in Alice (2001); fino a rappresentarsi in uno dei due vecchi protagonisti di Snuff o l’arte di morire, pubblicato da Einaudi nel 2013, entrambi crudamente e crudelmente affacciati sulla morte a venire, tanto vicina da farla propria in modo del tutto imprevisto anche se non è ancora tempo.
Magistrali i dialoghi quasi in forma socratica nelle sue opere, e i silenzi, che acquisiscono una vera e propria corporeità, accompagnata dall’amatissimo Mozart, ripreso in forma di leit-motiv nei suoi libri.

IN UNA NOTA DEL 2002 Mannuzzu ha scritto a proposito dei suoi compositi percorsi di magistrato, deputato, scrittore e poeta, che «alla politica spetta allargare le proprie orbite, raccogliere obiezioni soggettive e impolitiche»; alla letteratura «invece tocca essere sleale e irriducibile sino in fondo: insistere definitivamente nel dire no» ed egli ha saputo dire no con passo talmente saldo e certo nel rappresentare il nodo gordiano del bene e del male che se «il niente è questo, qualcosa forse rimane» (da Corpus, 1997).
Nonostante la possibilità che il Dark Winter raffigurato ne Le fate dell’inverno (2004) possa essere alle porte e che sia immagine non metaforica di un pericolo non poi così lontano di una tragedia imminente, virale, batteriologica o quant’altro di catastrofico si possa immaginare, nello stesso romanzo vi è la fragile ecosfera di una boccia di vetro che riproduce un beachworld, sorta di paradiso terrestre dove però non vi è alcun suono se non la calma più totale, «un paradiso senza Dio». A esso e alla precarietà materiale, mortale e transitoria, si contrappone il paradiso terrestre insulare, aspirato e assaporato a piene mani dalla voce narrante del romanzo e da noi che leggiamo e assaporiamo così grazie a Toti Mannuzzu la grazia terrena dell’isola e forse un dio terrestre e terreno c’è.