Gli studenti della Sapienza protestano perché spazi e le attività dell’università pubblica vengano occupati da una fiera che celebra innovazione e creatività. Al rettore Gaudio rimproverano un uso “commerciale” degli spazi, oltre che la chiusura di aule e servizi, con i lavoratori costretti a prendersi le ferie per lasciare spazio all’“evento”. Salvatore Iaconesi, hacker, artista, docente universitario e promotore della piattaforma network Art is Open Source, sta animando un’intesa discussione sulle pagine facebook dei Makers e ha esposto un punto di vista originale, capace di ricombinare i problemi e esporre le criticità di ciò che oggi si chiama “innovazione”.

Cosa pensa di questa protesta?
Penso che la cosa si possa vedere da più punti di vista. Da un lato aziende, organizzazioni e istituzioni che si stanno incontrando/scontrando in vari modi con il cambiamento dei modelli del lavoro, dell’impresa e, in generale, del benessere dei cittadini. Dall’altro lato i cittadini hanno sempre meno mezzi per orientarsi nel “futuro”. Ci sono pochi poteri in grado di comunicare (e, quindi, di attuare) “futuro”, che quindi diventa tendenzialmente “singolare”. Si perde progressivamente il potere di immaginare autonomamente futuri possibili, desiderabili, auspicabili. Tutto va in questa direzione: da come vengono resi disponibili i fondi per la ricerca; a come si trasformano le politiche del lavoro; a come si trasforma il sistema educativo. È una crisi dell’immaginario e del ruolo del conflitto in questo momento storico.

Come si posiziona la Maker Faire in questo scenario?
In maniera interessante. I Makers sono un movimento che trae le sue origini da considerazioni che prestano molta attenzione alle questioni sociali. Come diceva Enzensberger, nel suo saggio “L’Industrializzazione della mente” l’industria culturale (e, in generale, quella dell’immateriale, come tendenzialmente diventano tutte le industrie in questi anni) si trova davanti a un paradosso: la coscienza – il “prodotto” di questa industria – è un prodotto sociale, non industriale. Queste industrie, per questo motivo, si trovano a poter indurre e riprodurre coscienza, ma non a produrla. È un paradosso: io, azienda, non posso produrre il mio prodotto, ma solo riprodurlo. Questo paradosso si inquadra in un contesto più ampio, che è quello dell’economia immateriale. Quando Pine e Gilmore introducevano la definizione dell’economia dell’esperienza (la Experience Economy), iniziavano a notare come l’arte e la creatività assumessero un ruolo fondamentale: erano necessari per l’industria. Industria che, quindi, ha necessità di ripensare il suo ruolo nel gioco delle parti, e di imparare ad avere a che fare con i “piantagrane”, i “troublemakers”, li chiama Enzensberger: gli hacker, i pirati, i trasgressori, in tutti i campi, non solo della tecnologia. Ovvero quelli che sono gli unici in grado di innovare in maniera radicale, trasgredendo. L’invenzione è, a tutti gli effetti, una trasgressione.

Come avviene?
I modi son tanti: dalla co-optazione, all’assunzione, allo spettacolo e al palcoscenico, e persino agli atteggiamenti violenti e repressivi. Penso a Snowden e Assange: se da un lato sono dei “criminali”, secondo alcuni governi, dall’altra parte hanno creato interi mercati. Sta di fatto che, in un mondo in cui la gran parte di produzione intellettuale è frutto di remix e ricombinazione, la trasgressione assume un valore enorme per l’industria, che ha necessità di innovazione e che, quindi, ha necessità di aver a che fare con i troublemakers, inventando nuovi modelli industriali che permettano di stabilire questo rapporto. Ovviamente secondo termini e modalità accettabili dall’industria stessa.Il conflitto diventa l’incipit per il business. Questo ha impatti enormi sulla trasformazione dei modelli del lavoro, della proprietà intellettuale, dei diritti e tutele dei “piccoli”, della possibilità di avere spazi pubblici e privati, del ruolo del tempo libero nelle nostre vite (perché si trasforma sempre più in “lavoro”). Se utilizziamo questo punto di vista più ampio, il problema si sposta. Non si tratta di un problema di/con la Maker Faire, ma del problema di capire se l’Università sia un bene comune (tecnicamente, un “commons”). Secondo definizioni illuminate, come quelle di Elinor Ostrom, il “commons” non è costituito solo da una “risorsa”, da un qualcosa (come l’acqua, un bosco o un prodotto dell’intelletto), ma anche e soprattutto dell’ambiente relazionale ad alta qualità che è necessario perché sia possibile gestire il “bene” come comunità. Altrimenti non funziona. Questo è il problema: l’ambiente relazionale di alta qualità. È una dinamica che si ripete sistematicamente. È il principale punto per un possibile intervento costruttivo.

Cosa si può per creare un dialogo tra chi si forma e ricerca e chi inventa e crea, tra universitari e makers?
I problemi di questi giorni, secondo me, non sono nemmeno tra la Maker Faire e gli studenti – tantomeno con i makers –, quanto tra la governance dell’università e gli studenti. E questo è un fatto importante. Sarebbe avvenuto anche se si fosse trattato di un’altro evento. È già successo. È un problema molto simile a quanto avviene, ad esempio, nell’Unione Europea su questi temi. Gli amministratori e i burocrati hanno molte difficoltà a muoversi in un ambito di cambiamento esponenziale, a tutto tondo, come in questi anni. Per esempio, in quel contesto, soggetti come Google, IBM e pochi altri sono gli unici in grado di fornire in maniera sistematica materiali, informazioni, report agli amministratori, promuovendo, ovviamente, la loro visione di “futuro”, singolare, che poi è quello che si trasforma in politica, quasi secondo la logica del copia/incolla, contribuendo in maniera forte alla singolarizzazione del futuro, attraverso leggi, regolamenti, fondi per la ricerca, per la formazione e per la comunicazione. C’è uno scollamento evidente. Ripeto, per me è una crisi dell’immaginario e del ruolo del conflitto, della trasgressione. Come notava Rem Koolhas, in un incontro presso la Commissione Europea in tema di smart city, attualmente sui temi dell’innovazione non c’è un ruolo per la trasgressione. E questo è, ovviamente, un problema, perché corrisponde anche ad un ruolo per la diversità e la possibilità di considerarla un valore, oltre le poche righe che di solito vi si dedicano nei progetti e nella composizione delle strategie.

Come si può riattivare l’immaginario e il ruolo del conflitto?
Lavorare sull’immaginario, sui corpi e sull’umanità. Cercare di scordarsi, per un momento, che si ha una certa opinione, o che si appartiene a questa o quell’altra fazione, e creare relazioni tra esseri umani, e parlare in quanto tali. Dare valore alle diversità. Il conflitto non è una scocciatura, è una opportunità, anche se espresso male, con parolacce, luoghi comuni e slogan di altri tempi. Lo è per il fatto che esiste e si esprime, e bisogna capirne linguaggi ed immaginari. L’istituzione che immagino, per far sì che questo accada, assume la forma della piattaforma per l’espressione ed dell’abilitatore, piuttosto che di un decisore: un’entità dedicata alla creazione di ecosistemi in grado di far coesistere diversità, piuttosto che una dedicata alla formazione di consenso.Sarebbe molto differente, ad esempio, da quelle promosse da alcune forze politiche. Solo in questo modo è possibile stabilire connessioni, rapporti e dialoghi.

Rispetto alla sharing economy lei parla di ecosistema e lo contrappone a entertainement. Può spiegare le differenze?
Le differenze non sono tanto tra ecosistema ed entertainment, quanto tra istruzione e spettacolo. In ogni caso diventano sempre più sottili e difficili da individuare. E per fortuna. C’è, comunque, una sostanziale differenza: lo spettacolo è “mono”, promuove una visione singola di presente e di futuro; è una sospensione in cui ale un solo presente/futuro, quello deciso dalla regia, dallo sceneggiatore, dall’inquadratura, dalla fotografia. L’istruzione è – dovrebbe essere – performativa e partecipativa: si dovrebbero mischiare, in maniera fluida, tanti punti di vista partecipanti, e contaminarsi a vicenda, ne dovrebbero uscire trasformati tutti, tramite la relazione e la differenza.

Che cos’è oggi il valore dell’innovazione?
L’innovazione è trasgressione.Non c’è inno­va­zione pos­si­bile se non tra­mite la pos­si­bi­lità di tra­sgre­dire, supe­rarando limiti, nelle tante dire­zioni pos­si­bili, e tramite la diver­sità, la per­ce­zione del valore della diver­sità. Bateson diceva che “l’informazione è una differenza che crea la differenza”;. Penso che ci troviamo in una situazione simile: l’innovazione è una differenza che crea la differenza. Per questo, per poterne trarne vantaggio come società, come ecosistema umano, come ecosistema umano e naturale, occorre ripensare completamente il ruolo che il conflitto assume nelle istituzioni, e anche ri-immaginare i linguaggi del conflitto. Molotov e slogan non servono più, perché non solo non sono utili, ma addirittura dannosi: diventano parte dello spettacolo. Occorre una nuova sincerità, una nuova estetica, e quindi una nuova percezione del “bello”, che permetta di apprezzare il conflitto. Una nuova immaginazione. Da parte di tutti.

*** La storia ***

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