Chi salverà Carige? Nessuno. Diventerà dello Stato. Sarà nazionalizzata. Sino a due giorni fa la «ricapitalizzazione precauzionale», l’ingresso delle Stato a vele spiegate nell’istituto genovese, era dipinta come un’opzione remota. Da ieri auspicata a pieni polmoni da Di Maio – «Non sarà un salvataggio ma una nazionalizzazione» -, e con toni appena più sommessi dalla Lega, da Salvini ma anche dal freddo Giorgetti.

«NAZIONALIZZAZIONE» è diventata la parola magica, e proprio di magia è il caso di parlare perché quella formula dovrebbe certificare la differenza tra l’intervento del governo del cambiamento e quelli dei reprobi che lo hanno preceduto. «Se lo Stato mette soldi, anche un euro, in una banca, quella banca diventa dello Stato», tuona Di Maio. «Se ci saranno utili ci guadagnerà lo Stato», conferma a voce più bassa Salvini mentre Giorgetti si limita a enunciare l’ovvio: «La nazionalizzazione è una delle eventualità previste dal decreto. Ci sarà se nessun privato mette i soldi».

I TONI DIVERSI REGISTRANO due esigenze e due strategie differenti. Giorgetti sa perfettamente che, anche con lo Stato pronto a garantire i bond e ad accollarsi i crediti deteriorati grazie allo strumento ideato da Gentiloni e Padoan per Mps, non ci sarà ricapitalizzazione da parte degli azionisti, ancora attestati sulla linea del 22 dicembre, quella che ha reso inevitabile il commissariamento. Ma soprattutto è molto difficile che spunti un acquirente disposto a scommettere su una carta, anzi su una banca, così azzardata. A quel punto l’ingresso dello Stato, ancora sul modello Mps, sarà inevitabile.

Ma la medesima parola, sulle labbra del capo dei 5S, acquista un senso diverso. E’ il cuore dello scudo retorico con il quale Di Maio spera di fronteggiare la furia non solo dei suoi elettori, ma anche degli ufficiali e degli stessi parlamentari a 5 stelle. La razionalità c’entra sino a un certo punto. Per i 5S «salvare una banca», ancorché inevitabile come in questo caso, significa violare uno dei tabù più ferrei, ingoiare il boccone più indigeribile. «Nazionalizzare», invece, fa tutto un altro effetto. Tanto più che Di Maio accompagna l’auspicio con una raffica di richieste che denotano in realtà una punta d’isteria. Chiede la pubblicazione dei nomi di tutti i debitori, una punizione esemplare per gli ex ad di Carige, la convocazione di una nuova commissione d’inchiesta sulle banche, ma di fatto su Bankitalia, presieduta dal 5S Paragone.

IL FUOCO DI SBARRAMENTO è ad alzo zero. Bisogna dimostrare in qualche modo l’indimostrabile, e cioè che tra la strategia seguita dal governo «amico delle banche» per Mps e quella del «governo del popolo» per Carige la somiglianza è solo superficiale. Impresa ardua, essendo invece le due manovre praticamente identiche, come ha riconosciuto ieri di fatto lo stesso ministro dell’Economia Tria, sottolineando che «neppure quello di Mps fu un salvataggio». Sulla nazionalizzazione come panacea il ministro, come del resto i tre commissari che in febbraio presenteranno il loro piano e il governatore della Liguria Toti, è molto più tiepido. Tria è convinto che la via maestra passi per un intervento dei privati. Sa benissimo, infatti, che per le casse dello Stato la nazionalizzazione sarebbe un onere pesantissimo e che potrebbe rivelarsi anche più pesante quando arriveranno, sempre in febbraio, gli esiti dell’ispezione dei commissari Bce e quindi la cura indicata da Eurotower, che potrebbe rivelarsi da cavallo. Dunque Tria preme per una «soluzione di mercato che sarebbe molto preferibile», sottolinea che la nazionalizzazione sarebbe un passaggio solo temporaneo e una scelta «che passa attraverso la Bce e la Commissione Ue». Insomma, un ginepraio nel quale sarebbe infinitamente meglio non addentrarsi, sia dal punto di vista economico che da quello politico. Eppure quell’opzione che, per motivi facciata, Di Maio si augura venga adottata potrebbe invece essere imposta dai fatti. Se oggi nessuno è disposto a spendere per salvare Carige è ben poco probabile che il quadro cambi nei prossimi tre mesi.