Qualche anno fa, su un settimanale, lessi la notizia dell’esistenza del Garbage Patch, un’isola grande quanto il Texas e profonda trenta metri, composta da detriti plastici, che galleggiava in mezzo all’oceano Pacifico. Ne rimasi profondamente colpita e decisi subito che ci dovevo andare. Quando poi iniziai la mia ricerca, mi accorsi che il problema era ancor più grave sebbene, e anzi in virtù del fatto, che in realtà esso non fosse così appariscente. Fu quell’immagine però che colpì la mia immaginazione. Da allora non ho mai smesso di pensare a questo disastro ecologico: dovevo fare qualcosa. Ad oggi non si conosce ancora un rimedio per bonificare gli oceani e l’unica cosa da fare è evitare di fare crescere queste «isole». Per questo, è necessario l’impegno di ciascuna persona sulla Terra, ma come fare se nessuno di quelli a cui chiedevo conosceva precisamente il problema? Perché un disastro di quelle dimensioni era quasi sconosciuto? Io stessa, tra le svariate informazioni trovate in rete, non ero ancora riuscita a farmene un’idea precisa, eppure le «isole», che poi avevo in seguito scoperto essere cinque, erano veramente estese più del Texas ed erano terra di nessuno.

Un brodo «tossico»

La ragione per cui questo enorme problema ambientale è così trascurato risiede nel fatto che, per effetto della fotodegradazione, i detriti che dalle coste vengono trascinati dalle correnti al centro degli oceani con il tempo si riducono in pezzi sempre più piccoli fino a diventare microscopici, quindi invisibili a occhio nudo. Si forma così la famosa «zuppa di plastica», un brodo colorato formato da frammenti plastici di varie dimensioni. Si stima una concentrazione media di 46mila pezzi per miglio quadrato. Senza contare le particelle microscopiche che in proporzione al plancton sono in ragione di 6 a 1. Vuol dire 1 parte di plancton ogni 6 di plastica! Dunque gli oceani non si presentano come lastricati di plastica solo perché questa è in gran parte disfatta, e tuttavia presente, perché come sappiamo esso è un materiale non biodegradabile al 100%. Il fatto che il fenomeno sia quasi invisibile non significa che non ci sia, anzi è ancora più pericoloso e insidioso. La materia plastica, oltre a rilasciare gli elementi chimici tossici aggiunti durante la lavorazione, funge anche da catalizzatore per gli agenti chimici dispersi nei mari. Un altro grave problema ambientale è l’alta concentrazione di ormoni di sintesi rilevata negli oceani. Tutte le cure ormonali prodotte dalle case farmaceutiche, che vengono assunte dall’uomo, insieme a quelle usate nell’agroalimentare, finiscono attraverso le fognature in mare. La plastica assorbe gli ormoni e così i pesci. Di conseguenza si sono riscontrate moltissime anomalie nelle specie che li hanno ingeriti. Ovviamente, questo va a incidere sulla catena alimentare. Un altro problema correlato è che il manto di plastica agisce da filtro e impedisce la fotosintesi di quella specie di alghe che sono preposte a ossigenare il mare. È un meccanismo complicato da spiegare, ma questo influisce sul livello di CO2 nell’atmosfera. Per non parlare del numero di gabbiani e della fauna marina trovata morta dopo aver ingerito detriti plastici di media dimensione. Non sta a me divulgare certe notizie, anche perché in rete se ne trovano molte, ma il problema è proprio questo: ci sono tante informazioni e non tutte omogenee. Molti dati da cui è difficile trarre una sintesi. Purtroppo, le informazioni scientifiche non hanno prodotto un significativo interesse nell’opinione pubblica. L’arte però ha un effetto diverso: può con la potenza delle immagini e delle azioni smuovere nel profondo laddove il pensiero razionale non ha avuto presa. È proprio il linguaggio artistico quello che userò per la mia personale campagna contro questo disastro, che coinvolge tutti perché è opera di tutti. Per ogni piccolo pezzo che compone il Garbage Patch c’è una persona che lo ha abbandonato nell’ambiente. Una entità che ci appartiene e, allo stesso tempo, ci minaccia, come un luogo recondito della coscienza che riaffiora. Il Garbage Patch è ignorato dalla gente perché non possiede una sua immagine visibile. Mi è venuta allora l’idea di creare uno Stato per queste superfici marine formate da plastica estese per un totale 16 milioni di chilometri quadrati. Bisognava anche rivedere i confini geografici del pianeta: ho iniziato pertanto a costruire attraverso immagini una nuova geografia della Terra, da qui la serie di foto Satellite. Ho immaginato un’opera complessa che ho chiamato Wasteland – in omaggio a T.S. Eliot – che si snoda in un periodo di tempo di circa un paio di anni,, ma che potrebbe anche proseguire. Un’opera che si avvale di molte forme di espressione, dall’installazione alla performance, immagini fotografiche e qualsiasi altra cosa, senza limitazioni. Traggo nutrimento e ispirazione dall’interazione con le persone che via via vengono coinvolte in questo progetto e dai loro flussi energetici; credo che lo scambio debba essere reciproco. Il mio lavoro non nasce soltanto come risposta razionale al problema dell’inquinamento dei mari, ma come in tutte le opere d’arte c’è un aspetto irrazionale, non premeditato, qualcosa che ti sgorga da dentro a muovere tutte le azioni.

La performance all’Unesco

Lo scorso 11 aprile, nella sede centrale dell’Unesco, nella grande sala «Des pas perdus» ho prodotto una installazione composta da centinaia di grandi sacchi trasparenti contenenti una miriade di coloratissimi tappi di plastica insieme ad acqua, il tutto sotto vuoto. I sacchi erano disposti a davanti a uno specchio di circa trenta metri di lunghezza che serviva a raddoppiarne l’apparenza. Il muro alle spalle invece recava una altrettanto lunga immagine raffigurante delle nuvole all’orizzonte formata da grossi pixel, che non si percepivano da vicino, ma solo se riflesse nello specchio. Come sonoro, era riprodotto l’audio della mia video opera Cernita dove tappi smossi dalle mie mani producono un rumore simile a quello della risacca. Un rumore creato dalla plastica, dunque. Il fruitore, oltre ad avere la percezione di essere davanti al Garbage Patch State, si poteva vedere riflesso nello specchio, divenendo da spettatore attore. Si è svolta anche una piccola cerimonia: davanti alla direttrice generale dell’Unesco, Irina Bokowa e all’ambasciatore Maurizio Serra, Rappresentante permanente d’Italia presso l’organizzazione nonché del direttore della cultura Francesco Bandarin e gli astanti, ho pronunciato il discorso di riconoscimento dello Stato fittizio e piantato la bandiera al centro della mia isola. Il giorno della dichiarazione è stato aperto il sito garbagepatchstate.org, il portale del nuovo Stato dove sono veicolati i simboli come la bandiera e l’emblema e la sua carta costituzionale provvisoria, attraverso quali un paese indipendente proclama la propria identità, in cui riflette la sua ascendenza, il suo pensiero e la sua cultura. È stato così creato il mito del Garbage Patch State, una leggenda popolare che descrive, attraverso personaggi irreali, una situazione molto complessa. Alla creazione delle storie che costituiscono questa mitologia hanno lavorato gli studenti del programma «Competenze per la Sostenibilità» dell’università di Ca’ Foscari, diretto dalla docente Chiara Mio. Solo dopo quarantott’ore dalla dichiarazione dello Stato a Parigi, già settemila persone avevano visitato la pagina Facebook Sono arrivate via internet moltissime offerte di collaborazione, richieste su come le persone vorrebbero vedere evolversi il progetto, suggerimenti, contatti da ogni parte del mondo. Wasteland è la prosecuzione delle mie precedenti ricerche sul cambio di paradigma in atto (la mostra personale Paradigmi, Lu.C.C.A,Center for Contemporary Arts, 2010) e sui meccanismi che hanno prodotto, in un relativamente breve periodo di tempo, la trasformazione da un mondo lineare in un mondo non lineare (la videopera Trueman, 2011) dove non vigono più i vecchi modelli di organizzazione e sul conseguente disorientamento che essa ha provocato. È cambiata la maniera in cui si interagisce, di imparare, di comunicare: l’opera fugge dal museo e circonda la popolazione, passa attraverso i piccoli schermi degli smartphone, il medium attraverso il quale i giovani filtrano tutti i loro rapporti sociali, per venire moltiplicata e diffusa in maniera virale, agisce da piattaforma per la nuova forma di organizzazione sociale.

Dal mare alla Laguna

Come tutti gli stati, anche il Garbage avrà il suo padiglione a Venezia: ad ospitarlo sarà l’Università di Ca’ Foscari che ha messo a disposizione il suo cortile da giugno a novembre 2013. L’idea di associare il padiglione all’ateneo veneziano è nata da Olga Strada che ha messo in relazione il mio progetto con la vocazione ambientale del Rettore, Carlo Carraro, la persona che ha trasformato l’università di Ca’ Foscariin un riferimento italiano per le politiche universitarie del rispetto ambientale ed ha già sviluppato molte iniziative di carattere espositivo in tal senso. Altre università in seguito si sono rese disponibili ad aggregarsi al mio progetto come La Sapienza di Roma, che con gli studenti del Master in Exhibit and Public Design sarà partner di una installazione nella piazza del museo Maxxi di Roma, , prevista per settembre. In dicembre sarà la volta di un’altra installazione nella sede della nuova facoltà di ingegneria dell’Università Roma Tre, con la collaborazione di Stefania Angelilli che, tra l’altro, mi ha rifornito di tutti i tappi necessari per le opere. È programmata per il 2014 in collaborazione con l’Istituto europeo del design di Madrid, anche una installazione nel centro della capitale spagnola. Quando poi la community avrà raggiunto un nutrito numero di persone sarà organizzato uno smartmob. Userò i social network per effettuare una chiamata a compiere un’azione collettiva concreta, da svolgersi in contemporanea in diverse città del mondo, durante la quale ci sarà una sorpresa. Un lavoro questo che richiede un grande sforzo organizzativo per il quale sarò coadiuvata dall’ufficio Unesco di Venezia. Con le mie azioni non intendo assolutamente demonizzare la plastica: sarebbe un’utopia volervi rinunciare, essa ha prodotto una rivoluzione silente. Basti pensare alla fatica che doveva fare l’uomo in passato per fabbricare anche gli oggetti di uso comune in contrapposizione alla immediata disponibilità di adesso. È stata come la liberazione da una schiavitù. Il fatto è che oggi gli oggetti hanno perduto la loro dignità perché troppo facili da reperire e quindi banali, hanno perso la loro aura; sono divenuti, dunque senza valore, da abbandonare. Dal momento che non ci sono rimedi per ripulire gli oceani da questa sporcizia, dobbiamo soltanto fare in modo che non cresca ulteriormente (dal 1970 il GP è ingrandito cento volte). Ovviamente gli Stati possono fare molto; laddove le coste sono state oggetto di costosi interventi di ripulitura il risultato si vede. Ma dobbiamo essere noi a cambiare le nostre abitudini. La maggior parte dei detriti in mare proviene da oggetti usa e getta, bottiglie sacchetti ecc. Normalmente, non si abbandona un aspirapolvere per strada,, ma sacchetti e bottiglie non si contano.