Quasi 500mila firme, in soli 6 giorni. Un’impresa. Perché mai prima d’ora, in un lasso temporale così ristretto, si era registrata una mobilitazione così ampia. Fragorosa, se pensiamo alla timidezza dei partiti e dei media, salvo meritevoli eccezioni.

Questo è il dato del successo referendario di questi giorni. Non l’aritmetica, ma un fatto politico enorme. Così come per l’eutanasia, il referendum sulla cannabis dimostra che la società italiana è molto più consapevole e determinata dei politici che la rappresentano.

La metà delle persone che ha firmato ha meno di 25 anni. Una generazione che sa bene che parlare di legalizzazione della cannabis non significa ridurre il tutto alla questione “droghe”. Significa semmai affrontare il tema della salute e della sicurezza. Di economia e di posti di lavoro. Della cura dei pazienti e della consapevolezza del consumatore. Della formazione dei medici e dell’impiego delle forze dell’ordine.

Riguarda uno dei temi più tragici e importanti della nostra storia, passata e presente: la lotta alle mafie. In un mercato, quello dei cannabinoidi, che ha stime di dimensioni gigantesche: fra 1,5 e i 3 milioni di chilogrammi l’anno.

Ecco, la repressione non ha ammaccato le mafie, le ha arricchite. Non ha ridotto i consumi. Non ha eliminato la domanda, l’ha semplicemente consegnata al traffico illegale. Eppure, il procuratore nazionale Antimafia Cafiero De Raho nel gennaio scorso aveva ammonito: «Legalizzare le droghe leggere toglierebbe spazio alle mafie. Sottrarremmo terreno al traffico internazionale e potremmo concentrarci sul livello alto delle organizzazioni criminali».

Nemmeno questo è servito a squarciare il velo dell’ipocrisia e innescare una riflessione politica per superare delle norme vetuste. Ma a che servono le istituzioni, il Parlamento, i giornali, le tv, se non a questo? Come si ci può lamentare della distanza delle persone dalla politica, se questa non ha il coraggio di occuparsi nemmeno del grido del procuratore nazionale antimafia?

Il merito più grande di questa mobilitazione è che non si potrà più fare finta di niente.

Ha fatto emergere la realtà, con tutte le sue implicazioni e sfaccettature. E la politica adesso ha il dovere di posare i paraocchi che ha indossato negli anni e di guardare i fenomeni sociali che la circondano. Con competenza e serietà. Così come stanno facendo in tanti altri Paesi del mondo. Dove la legalizzazione della marijuana non ha determinato alcun disastro. Gli incidenti stradali non sono aumentati, i consumi di altre sostanze nemmeno. Non solo. Negli Stati americani, solamente nel 2020, il mercato legale della cannabis ha sfiorato i 22 miliardi (sì, miliardi) di dollari, garantendo un posto di lavoro a 320.000 persone.

Il proibizionismo, al contrario, rappresenta un costo. Di vite, ahimé, e di soldi – pari a 600 milioni di euro – tra forze dell’ordine, processi giudiziari e sistema carcerario. Il paradosso è esattamente questo: aver reso spesa (e morti) quella che è una risorsa. Una risorsa che, oggi, è in mano al mercato illegale, a quella criminalità organizzata che, a parole, tutti vorrebbero combattere.

In Italia, ci sono oltre sei milioni di persone che consumano cannabis. E che lo fanno nonostante ci siano leggi restrittive e punitive. Sei milioni di persone trattate come criminali e costrette a rivolgersi a chi criminale lo è per davvero. Sei milioni di persone che, invece, vorrebbero potersi rivolgere in modo consapevole a un altro tipo di mercato: quello legale, controllato dallo Stato, contribuendo ad arricchirlo.
Così come i pazienti che avrebbero diritto alla cannabis terapeutica non vorrebbero rivolgersi (pure loro!) al traffico illegale a causa di un’insufficiente disponibilità, di medici poco informati, di una corsa ad ostacoli che nega il diritto alla cura.

Legalizzare significa regolamentare la qualità della produzione. Regolamentare la produzione significa proteggere il consumatore. Legalizzare significa portare miliardi di ricchezza e decine di migliaia di posti di lavoro. Questo chiedono le centinaia di migliaia di firme.

E chiedono alla politica di occuparsi senza paura e con serietà dei temi che riguardano la vita delle persone. Perché è così che si riporta la politica tra i giovani e i giovani alla politica.

L’autore fa parte della direzione nazionale Pd