Stare a casa, senza il dovere dei compiti, senza l’assillo di mettere una idea in una griglia o in una mappa concettuale, senza prepararsi per i quiz o per gli invalsi. Non andare in palestra, né a danza, né alla lezione dove si impara a balbettare l’inglese. Leggere Pinocchio o Cime Tempestose o Germinale e Metello, così, senza un fine se non il piacere. Giocare alle costruzioni, fare pupi di cartapesta con i vecchi giornali.

Prendere un cavalletto e dipingere mescolando colori, sentire la musica, così, senza un fine se non il piacere. Parlare con i nonni, magari a un metro di distanza, magari mascherandosi non per proteggersi ma per rappresentare Ulisse che combatte Polifemo o il Barone che sale sull’albero o i mille altri personaggi del sogno e dell’immaginario. Guardare la luna, il cielo, gli animali, così, senza un fine se non il piacere. Pensare a se stessi, ma non in funzione dei voti, della prestazione, della competizione, ma dei veri bisogni e degli affetti. E, se si è più grandi, fare l’amore, pensare all’amore, scrivere d’amore…inventando una nuova didattica e una nuova vita ai tempi del colera.

La vita ai tempi del colera, come nel romanzo di Garcia Marquez, è strana, ambigua, carica di presagi di morte ma anche di desideri d’amore e di poesia. Accade perché è più lenta, perché deve modificare la percezione solita dello spazio e del tempo.

Lo spazio cambia, sotto la minaccia del contagio: allontana le persone nel corpo, che si avvicinano però nel bisogno, nella consapevolezza di potersi salvare se si è una comunità di destino.

E anche il tempo cambia: domani, fra una settimana, a maggio, diventano categorie mitiche, probabilità e non certezze. C’è invece l’oggi, l’ora del presente che si deve caricare di senso perché dentro, improvvisamente, ha fatto irruzione la zoe, la nuda condizione biologica , e il tema, più o meno vero, più o meno enfatizzato, della sua sopravvivenza.

La scuola dovrebbe adattarsi a questa mutazione, a questa lentezza, a questa diversa concezione della distanza/vicinanza. Ma non ce la fa e chiude, non solo per ragioni sanitarie. La scuola, per parafrasare Giorgio Agamben, si regge su un perenne stato d’eccezione rispetto alla condizione biologica. Il suo tempo è quello artificiale della velocità e quello di un oggi interamente proiettato al conseguimento di un successo per il domani (per il compito finale, per l’esame finale di “maturità”, per le valutazioni “terminali” , per evitare il “tasso di mortalità”. La scuola ha uno spazio chiuso, claustrofilico, che imprigiona i corpi, li trattiene senza liberare le anime, senza invitarle alle cooperazione e all’apertura. Con l’Officina dei Saperi abbiamo fatto un Convegno per cercare di dimostrarlo.

Perciò ben venga questa pausa, senza compiti da smaltire, senza lezioni a distanza, senza didattica online, senza flipped classroom con video, schemi, slide e altre consimili fesserie dell’anglopedagoghese. E ciò valga anche per gli insegnanti, per renderli più accorti rispetto ai mali virtuali che li vogliono moderni, sempre più, macchinicamente, moderni.

Stare a casa, per un numero indeterminato di giorni, lontano dal registro elettronico che in effetti può produrre contagio e dal virus dilagante della didattica online, tornando a riflettere sul fatto che la scuola è un luogo formativo e non informativo, che in essa si deve quotidianamente praticare un corpo a corpo, fatto di risate vere, di conoscenze, di giochi collettivi e non virtuali e solitari. Tornare a riflettere per aiutare chi vuole disinfettare gli ambienti da chi ossequia il bocciare, il discriminare, il medicalizzare le differenze, ricordando che il fine dell’insegnare è la sanità civile, la riproduzione dell’umanità in quanto buona umanità.