Cinquantamila civili sono rientrati nelle loro case a Ghouta est: lo annuncia l’agenzia di Stato siriana Sana, dopo l’evacuazione di massa delle ultime settimane. Secondo Damasco, il rientro è stato possibile nelle località di Haza, Saqba, Hamonia, Jisreen, Ein Tarma e Zamalka, quelle da cui i gruppi di opposizione islamisti hanno accettato di andarsene. Ovvero i salafiti di Ahrar al-Sham e Faylaq ar-Rahman, gli islamisti dell’Esercito libero siriano, un totale di 46mila persone, tra miliziani e loro familiari.

È saltato invece l’accordo con la più potente e numerosa milizia presente nel sobborgo di Damasco, sotto assedio esterno e interno dal 2013: Jaysh al-Islam rimane a Douma, principale città di Ghouta est dopo il fallimento del negoziato con Mosca. Nei giorni scorsi l’uscita pareva certa, ma al momento solo 3mila dei 15mila uomini presenti sono stati evacuati, non verso Idlib come i gruppi precedenti, ma ad al-Bab e Jarabulus, nella curda Rojava, a sostegno dei piani militari turchi.

I due fronti si scambiano accuse reciproche: per Damasco i salafiti non intendono consegnare i prigionieri; secondo Jaysh al-Islam – finanziato dall’Arabia saudita – la ragione sta nel disaccordo interno a Damasco e Mosca sulla richiesta islamista di restare come forza non armata di polizia.

La conseguenza è immediata e devastante, a essere scambiate non sono solo parole: da due giorni Douma è tornata target di pesanti scontri, con rinnovati raid aerei governativi e lancio di missili da parte islamista verso le zone residenziali della capitale.

Il bilancio è alto: sarebbero almeno 47 i morti per le bombe di Damasco, secondo le opposizioni; sei morti per i missili jihadisti piovuti sui quartieri damasceni vicini. In entrambi i casi, tra le vittime ci sono donne e bambini. Una rinnovata violenza che spezza la tregua degli ultimi 10 giorni e che blocca l’avanzata governativa, con Damasco che ha ripreso – dal 18 febbraio, inizio della nuova controffensiva su Ghouta – il 95% del sobborgo. Pagano i civili, con decine di migliaia di persone impossibilitate a fuggire e a ricevere aiuti, in un’area da anni affamata dal doppio assedio.

Assediato è anche il nord della Siria con le truppe turche che dal 18 marzo (l’occupazione del cantone curdo di Afrin) ampliano il loro raggio di azione giustificandolo con la «pulizia» della zona da ordigni e «terroristi». Ovvero i combattenti delle unità di difesa curde Ypg/Ypj, impegnate in atti di guerriglia contro l’esercito di Ankara e i miliziani delle opposizioni siriane a questo fedeli.

Secondo fonti locali, i raid aerei nella zona occidentale di Rojava proseguono, come prosegue lo sfollamento della popolazione civile: solo negli ultimi giorni, riporta il funzionario Ihsan Celebi, 120 famiglie sono state costrette a lasciare dieci villaggi. E in pericolo, denuncia l’Amministrazione autonoma di Afrin in esilio, c’è l’agricoltura, prima fonte di sostentamento del cantone: 14 milioni di alberi di ulivo presenti nell’intero distretto sono a rischio a causa delle violenze e dell’assenza dei contadini.

Ieri il capo di stato maggiore turco ha annunciato l’apertura della nona base nella provincia nord-ovest di Idlib, a pochissima distanza da Afrin, e l’intenzione di procedere con l’installazione di altri tre punti di osservazione. Nella pratica aree militari controllate dalla Turchia e che servono allo scopo dichiarato di avanzare verso oriente per creare un corridoio kurd-free alla frontiera settentrionale siriana (nell’idea, espressa ieri dal ministro degli Esteri Cavusoglu, di «correggere gli errori degli Usa», ovvero il sostegno alle forze curde).

Azioni che si sposano con quanto avviene al di là del confine est, nel nord dell’Iraq, sulle montagne di Qandil: di nuovo ieri – come negli ultimi anni avvenuto con costanza – l’aviazione di Ankara ha bombardato postazioni del Pkk.