Il termometro segna nove gradi, il freddo è pungente, ma sul lungomare di Salonicco, nonostante i morsi della crisi che ha inginocchiato la Grecia (secondo le statistiche, quattro milioni di persone vivono sotto la soglia della povertà, un terzo dei greci), i caffè sono affollati e la musica si diffone nell’aria ad alto volume. I giovani preferiscono stare all’aperto, protetti solo dal calore delle stufe a fungo. Qualche petroliera scivola sull’acqua in lontananza, incorniciando con la sua sagoma nera il monte Olimpo che si vede da ogni parte della città perché, insieme al mare, è un protagonista assoluto del golfo termaico.
Salonicco, in greco Thessaloniki dal nome leggendario della consorte (figlia di Filippo II) del generale macedone Cassandro che nel 316 a.C. la fondò, è la seconda città della Grecia e per il 2014 si prepara a diventare The European Youth Capital, il crocevia dei giovani. Non è casuale questa scelta: su un milione di abitanti, circa 150mila sono studenti e il 50% della popolazione di Salonicco è costituita da ragazzi e ragazze. Una media da far invidia a gran parte dell’Europa, con i suoi asfittici numeri di crescita demografica pari allo zero. Certo, le prospettive di lavoro e di  coronamento dei propri sogni sono scese in picchiata, ma non sparite. Per molti cervelli che sono emigrati, ce ne sono una buona fetta che ritornano in Grecia, per non lasciare il paese nelle mani delle banche e delle «cure» dell’Ue.

Città spesso considerata solo di passaggio per raggiungere la penisola calcidica (su cui oggi incombe la minaccia della miniera d’oro con la conseguente distruzione dell’ecosistema e della montagna di Aristotele, oltre al rischio della contaminazione con metalli pesanti di suolo e falde acquifere), le mète marine o altri luoghi continentali, Salonicco merita invece una sosta perché ha
nel suo dna una stratificazione di storie che la rende eccentrica e, un tempo almeno, sicuramente molto prima di Alba Dorata, conosceva le leggi della tolleranza, ospitando nel suo territorio ebrei (fino alla loro deportazione nei campi di sterminio erano più della metà della popolazione, poi non ne tornarono che un migliaio), musulmani, ortodossi e cattolici. La città vecchia conserva solo un tratto di possenti mura – di circa 10/12 metri – nella parte alta, lì dove passava la via Ignatia, l’arteria strategica costruita dai romani dopo la vittoria di Pidna, che attraversava la pianura macedone per collegare Roma a Bisanzio. Fu una via importantissima per la diffusione del Cristianesimo (venne percorsa più volte dai Crociati) e mantenne la sua peculiarità anche durante il periodo degli Ottomani, che nel 1430 conquistarono Salonicco per poi lasciarla in eredità ai turchi, fino al 1912. Poco resta oggi dei quartieri più antichi, quelli malfamati vicino al porto, quelli dei commerci con le botteghe degli ebrei, quelli musulmani: nel 1917 un incendio ha spazzato via quasi tutto. Era il 18 agosto e il fuoco, divampato sembra a causa della distrazione domestica di una donna in cucina, divorò in sole 32 ore 9500 edifici in legno, cambiando il volto della città.

Salonicco però è rinata dalle sue ceneri, ha continuato ad espandersi – scontando anche gli abusi edilizi degli anni Sessanta e Settanta – e ha inglobato nel suo ventre moderno le testimonianze del suo glorioso passato. Così, capita di intuire fra lo skyline di due brutti palazzoni, una bellissima chiesa bizantina, più bassa, quasi uno scrigno chiuso in mezzo alle mura che lo sovrastano. Poco oltre, camminando ancora, si può incrociare un antico hammam, oppure trovarsi di fronte la grande agorà, che ricalca i confini di quella di epoca ellenistica. Si può poi entrare a san Demetrio (il santo protettore) e scovare, fra le colonne, i mosaici bizantini sopravissuti all’incendio, oppure imbattersi in Santa Sofia (VIII secolo) e nella facciata porta le tracce delle architetture romane: da qui si può vedere il livello più basso su cui si ergeva l’antico insediamento, mentre la sua pianta, in miniatura, fa rivivere quella dell’omonima chiesa di Istanbul.

La città moderna non sempre riesce a convivere con il fantasma di quella storica, spesso entra visibilmente in conflitto: il cantiere della metropolitana procede a rilento, oltre che per i soldi a singhiozzo anche per i ritrovamenti archeologici. Quando si scava, a Salonicco, si «inciampa» sempre in qualcosa. Stavolta, è stata un’importante via bizantina, dell’VIII secolo, a riaffiorare. Ma Salonicco non vive solo di ricordi: la città contemporanea ospita un festival del cinema, e, proprio in questi giorni, una Biennale di arte contemporanea (fino al 31 gennaio). Giunta alla sua IV edizione, la mostra è sopravvissuta all’austerity poiché è finanziata nell’ambito del Programma Operativo Macedonia-Tracia 2007-2013, attuato dal Museo di stato di arte contemporanea, con la partecipazione dall’Ue. La rassegna, quest’anno curata da Adelina von Fürstenberg, è disseminata in vari luoghi della città, dal quartiere fieristico ai musei fino a comprendere due ex moschee e sfodera un titolo che rimanda all’attualità stringente del Mediterraneo: Everywhere but now. Crocevia di culture e melting pot di tradizioni e usanze, il Mediterraneo è, secondo Fürstenberg, un luogo da ritrovare e riattraversare con la creatività e la tenacia delle popolazioni che lo hanno caratterizzato in passato. Spazio simbolico dello scambio fra Europa, Asia e Africa, può arginare la deriva ostile di gran parte del mondo. Gli artisti sono chiamati ad affrontare questo arduo compito, ad affinare la consapevolezza proprio in un momento difficile. Anche le star, come Marina Abramovic, di cui in
mostra si presenta il potentissimo filmato sui bambini soldato che giocano alla guerra, mescolando esecuzioni capitali ad allegre e scomposte cuscinate maschi contro femmine. Da parte sua,
Philip Rantzer, che ha rappresentato Israele alla Biennale di Venezia nel 1999, mette in scena un’Europa che bivacca su una panchina, senza più tetto né legge. La violenza e la perdita di un centro «umano» nelle relazioni è ciò che si evince anche dall’installazione di Liliana Moro Underdog – cani che combattono – un’opera del 2005 riproposta a Salonicco per la sua pertinenza politica.. Molti gli artisti greci invitati ad esporre; fra questi, c’è Maria Papadimitriou: lei allestisce un set con i resti di un naufragio, così come la francoalgerina Zineb Zedira parla della «fine del viaggio» attraverso una serie di carcasse di navi arenate e arrugginite, mentre il collettivo cubano Los Carpinteros indaga le soglie dei tunnel e gli sbarramenti. Ecco, è ora di uscire alla luce.