Il principio di maggioranza stabilisce che chi ha il numero di voti più alto, vince. La riunione dell’Aie (Associazione degli editori italiani) convocata per decidere la spostamento del Salone del libro da Torino a Milano ha espresso un giudizio favorevole. Diciassette i voti per dare seguito a un nuovo progetto di Salone del libro da ospitare a Milano, sette contrari e altri otto astenuti. Una decisione dunque sofferta e discussa, che vede l’associazione degli editori divisa come non mai. Il principio di maggioranza non prevede mezze misure. E così il suo presidente, Federico Motta, ha commentato il progetto di spostare l’importante kermesse editoriale come intellettualmente ed economicamente valido annunciando che nei prossimi giorni e settimane la macchina organizzativa definirà il calendario e il programma del prossimo salone italiano del libro.

Silenzioso il Ministro dei Beni culturali Franceschini, che pure nei mesi scorsi ha lavorato perché il Salone del libro rimanesse a Torino. Reazione affilata quella di Piero Fassino, indirizzata però alla sindaca pentastellata Chiara Appendino, rea, a suo dire, di non aver saputo impedire l’operazione. E orgogliosa la posizione del governatore piemontese Sergio Chiamparino, convinto che Torino saprà raccogliere la sfida e così restituire al capoluogo sabaudo il blasone di una delle capitali dell’editoria italiana, indicando nell’ex ministro della cultura Massimo Bray il nome sul quale puntare. A seguire le dichiarazioni di editori a favore (il gruppo Mauri Spagnol è stato tre i primi) e contrari (Laterza e e/o).

Finisce così, a quasi trent’anni, dal suo esordio una delle iniziative dell’editoria italiana che ha avuto nel rapporto tra capitale privato, pubblico e politica il circolo virtuoso che ne ha garantito il successo. E c’è da scommettere che quell’intreccio non sempre trasparente tra politica e affari ha in qualche misura condizionato e favorito anche questo mesto esito.

Trenta anni fa Torino era in piena crisi sociale e di identità. La Fiat aveva licenziato migliaia di lavoratori e abbandonato il Lingotto a un destino di archeologia industriale. Ma l’area industriale è invece diventata la sede del Salone del libro, primo esempio della mutazione della città operaia per eccellenza in metropoli post-industriale, sogno e progetto inseguito dalle giunte di centrosinistra e dai poteri forti della città (Fiat, la Fondazione Banca Intesa, ad esempio).

Anno dopo anno, Torino ha visto riempirsi le sue piazze di migliaia di appassionati del libro. Ma più il Salone cresceva, meno semplice era la gestione della macchina organizzativa. Inoltre, era diventata un’impresa con fatturati milionari. E la trasparenza non è stato l’elemento di forza della kermesse piemontese. Inchieste della magistratura, cambiamenti repentini nel consiglio di amministrazione, ruolo sempre più accentuato del capitale privato con la politica spesso passiva spettatrice. Mal di pancia sempre più frequenti degli editori, che chiedevano, inascoltati, maggiore coinvolgimento nell’organizzazione.

Se vogliamo una data della rottura tra Associazioni degli editori e la Fondazione del salone del libro è da ricercare nel mese di febbraio quando il suo presidente Motta si è dimesso dal consiglio di amministrazione della Fondazione del Salone sbattendo la porta. Ieri le agenzie hanno segnalato che proprio in quel mese sono stati avviati contatti con società milanesi per fare della città meneghina la sede del Salone 2017. Ma tutto era in stand by, per non «turbare le elezioni». Scelta condivisa dai gruppi Mauri Spagnol, Mondadori, Feltrinelli, Giunti, cioè le teste di serie dell’editoria italiana.

Significativa l’area milanese scelta, Rho, cioè quegli spazi dell’Expo in attesa di essere riciclati dopo l’esposizione mondiale. Serafica la dichiarazione del nuovo sindaco, Sala, che ha lapidariamente affermato che il comune di Milano si metterà a disposizione. Per l’ex-patron dell’Expo una patata bollente in meno da spellare, visto che l’area dell’Expo era in attesa di essere riempita. Inoltre, come ormai accade in tutti i cosiddetti distretti culturali, sono sicure le ricadute economiche nell’indotto.

Meno contenti gli organizzatori di un’altra fiera del libro milanese, Bookcity, che vedono il Salone del libro come un colpo alla schiena nei confronti di una iniziativa che cominciava a diventare un appuntamento importante per l’editoria.

Rimane comunque da capire il perché dello spostamento. Gli uffici stampa sono deserti per le vacanze estive o rispondono educatamente che non è di loro competenza un tema di questo tipo. Ma i rumors della Rete sono meno ovattati. Lo spostamento coincide con la volontà di trasformare il Salone del libro in una grande fiera europea e commerciale, come quelle di Francoforte e di Londra. Dunque una fiera necessariamente aperta ai colossi dell’editoria europea e non solo, che si recavano a Torino solo per vedere cosa bolliva in pentola.

Francoforte e Londra accolgono anche case editrici di altri paesi del vecchio continente e d’oltre Oceano o del Far East. Dunque poche iniziative collaterali, culturali, meno attenzione al rapporto con la scuola e alla promozione del libro, piuttosto fiera commerciale. Sono ipotesi, certo, ma lo spostamento del Salone del libro è la ciliegina sulla torta della concentrazione oligopolista della produzione e distribuzione di libri nel nostro paese, che ha avuto il suo acme nell’acquisizione di Rizzoli da parte di Mondadori. Poche case editrici che si spartiscono il 70 per cento del mercato, lasciando il resto ai piccoli, medi e indipendenti editori. Dunque ora le teste di serie sono pronte alla competizione europea e mondiale. Una speranza che non coincide con la realtà che conosce una contrazione preoccupante del mercato del libro e una dilagante tendenza a un provincialismo e a una subalternità nella scelta degli autori e dei libri da stampare.