Sulle scene operistiche contemporanee si disegna di stagione in stagione una serie variegata di temperamenti tra centralità del direttore e il dominio incontrastato del regista, con spazi ormai episodici per spettacoli montati intorno a grandi divi canori. Quest’estate a Monaco di Baviera e a Aix en Provence ci siamo imbattuti in due esempli lampanti di sovrascrittura registica e di «regia sonora»’ realizzata dal podio. Alla Bayerische Staatsoper nell’ultimo festival di luglio che vedeva la presenza su podio di Kirill Petrenko ( tornerà nelle riprese di ottobre ) abbiamo assistito a Salome di Strauss nell’elaborata quanto discutibile regia di Krzysztof Warlikowski. Il regista polacco muove dalle ricerche storiche e sociologiche che in Polonia e Ucraina hanno mappato decine di sinagoghe antiche, riadattate a attività di ogni genere, private del legame con l’uso religioso in decenni di silente reiterazione dell’appropriazione dei beni delle comunità ebraiche lì un tempo fiorenti, ultimo atto della loro eliminazione fisica durante la II Guerra Mondiale; una precisa allusione alle leggi che in Polonia intendono vietare, contro la verità storica, qualsivoglia associazione fra nazione e i crimini nazisti dell’Olocausto.

IL PALAZZO di Erode è rappresentato dunque dall’immensa, tetra biblioteca di una sinagoga, sul fondo catafasci di volumi, la sala affollata da famiglie di ebrei nel panico, che vendono e scambiano fagotti di beni preziosi, lasciandoci percepire un’atroce minaccia incombente. Salome, tailleur rosso fuoco, con intorno Paggio e Narraboth, incontra Johanahan quando il pavimento si apre e rivela una piscina, moderna cisterna ma anche reale funzione odierna dell’edificio. Qui Salome propone la sua scatenata danza e poi alla presenza di Erode e di sua madre ( Wolfgang Ablinger- Sperrhacke e Michaela Schuster), la principessa di Giudea, avvinta al sacco sanguinante contenente la testa del Battista, soccombe, mentre il poco incisivo Battista-Wolfgang Koch, osserva seduto mentre fuma, la testa ancora sul collo. Il finale orrifico prevede che anche il drappello raccolto nella biblioteca muoia, togliendosi la vita. Si immagina che Warlikowski e Petrenko abbiano concordato fra le altre cose sull’aderenza fisica di Marlis Petersen alla conturbante azione registica, peccato che in tanti passaggi, finale incluso, la sua voce non fosse udibile, nonostante i suoni distillati e i maliosi miracoli di dolcezza realizzati dal direttore. Per una Salome senza protagonista al Festival di Aix abbiamo visto un’Ascesa e caduta della città di Mahagonny di Brecht/ Weill senza regia o quasi. Uno studio tv sguarnito, un ambiente massmediatico in decomposizione è il suggerimento visivo che ci offre Ivo Van Hove, che ha la fortuna di poter contare su cantanti-attori strepitosi anche in assenza di disegno registico: a partire da Karita Mattila, Leokadja di impatto tale da subissare quasi la pur esuberante Jenny di Annette Dasch.

ACCANTO all’eccellente Jimmy Mahoney di Nikolai Schukoff, spiccavano Willard White/ Trinity Moses e il simpatetico Toby di Thomas Oliemans. All’evanescenza registica offriva splendida sostanza dal podio Esa Pekka Salonen che dell’opera offre, grazie alla Philharmonia Orchestra e allo strepitoso coro Pygmalion, una lettura inesorabile quanto asciutta, in sapiente bilico fra un tratteggio neoclassico e il fascino di nostalgie tardo romantiche celate nelle marce e nelle canzonacce, come nei tormenti della maledetta città dove tutto su può fare ma non restare senza denaro.