Per catturare il reale, ha più volte detto Salman Rushdie, bisogna lasciarsi alle spalle il realismo, e non è un caso se, spesso, l’assurdo e il surreale finiscono per anticipare gli eventi della Storia: nell’agosto del 2001, all’uscita di Furia, il primo romanzo scritto dall’autore indo-inglese dopo il suo trasferimento negli Stati Uniti, quel che si colse era niente altro se non la comica vicenda di un intellettuale di origini indiane che fugge dal mondo dei talk show londinesi per perdersi nella «inarticolata magia delle masse» di New York. Ma dopo l’11 settembre, quello stesso romanzo acquisì inquietanti risvolti profetici, grazie alle descrizioni di una metropoli in cui «la vita umana si viveva nel momento prima della furia, quando la collera cresceva».

Una identica sorte si prepara per Quichotte, l’ultimo lavoro di Rushdie (traduzione Gianni Pannofino, Mondadori, pp. 456, € 22,00) accolto la scorsa estate in America come un fiammeggiante pastiche dal capolavoro di Cervantes, punteggiato da innumerevoli citazioni e campionature di prodotti culturali di ogni tempo e latitudine, ma che ora, alla sua pubblicazione in Italia e in Spagna, si colora di sfumature premonitrici, tanto nel finale apocalittico, quanto nel riferimento a pestilenze che «avevano origini misteriose, mietevano vittime a caso ed erano incontrollabili».

Verso la conquista
Disgraziatamente privo di capacità divinatorie, Rushdie conferma piuttosto la convinzione cui è rimasto fedele nell’arco della sua ormai quarantennale carriera: per comprendere la realtà occorre dis-realizzare il reale, al modo di Dickens; in questo caso, tramite il racconto delle traversie subite da un anziano rappresentante di farmaci, Ismail Smile, che, per troppa frequentazione della tv spazzatura, non riesce più a distinguere il vero dal falso e confonde la realtà con la finzione. Invaghitosi di una conduttrice televisiva, come lui di origini indiane, guarda caso chiamata Salma R., alla quale indirizza anacronistiche lettere d’amore firmate «Quichotte», Smile parte per un viaggio attraverso gli States, diretto a New York, con l’intento di conquistarla. E, dal momento che l’intera vicenda si svolge nell’«Epoca del Tutto-Può-succedere», ad accompagnarlo c’è il figlio adolescente nato da un sogno, Sancho, la cui figura, quando appare, si staglia sullo sfondo in bianco e nero, «il più irreale dei modi» (secondo una definizione presente in Furia); ma, poiché la realtà «è a colori, e il suo copione è meno curato di quello di un film», man mano che la vicenda narrata si allontana dalla frontiera del verosimile, acquista tutte le colorature del reale.

Il cavaliere errante 2.0 muove, dunque, alla conquista di una Dulcinea del Toboso drogata di oppiacei, e «con un debole per le storie di immigrati recenti»; la sua cavalcatura non è la copia maldestra di Ronzinante bensì un’auto presa a nolo e, al posto dello scudiero Sancho Panza, c’è, appunto, un fantasmatico ragazzino, del tutto disorientato. Non pago di proiettare il suo Don Chisciotte in una sorta di iperrealismo magico di vittoriana memoria, Rushdie ne tesse le disavventure intrecciandole alle vicende e ai problemi dell’autore fittizio, che ne sta immaginando le peripezie: uno scrittore di origini indiane, indicato con il generico nome di Fratello, che si guadagna da vivere pubblicando romanzi di spionaggio sotto lo pseudonimo Sam DuChamp.

Mentre assume via via sfumature vagamente borgesiane, l’espediente metanarrativo si fa pretesto per rapsodiche divagazioni sulla natura onirica del reale, fino a intrecciare in modo pressoché indistinguibile i casi del personaggio con quelli del suo creatore immaginario, entrambi riconducibili all’autore reale che tira le fila delle loro storie. Ovvio, infatti, il collegamento del Rushdie in carne e ossa al Fratello del suo romanzo, di cui si legge: «Era vecchio, e la realtà era diventata assai più strana delle sue fiction… Da qui Quichotte, picaresco e folle e pericoloso, una mossa del cavallo per togliersi da una posizione sempre meno sostenibile sulla scacchiera».

Demolendo fino a renderle irreversibili le barriere tra finzione e realtà, e anzi spingendosi a capovolgere il rapporto tra fact e fiction in un gioco combinatorio dalle soluzioni esponenziali, l’autore fittizio, mentre viene identificandosi sempre più con il personaggio di cui sta scrivendo, è costretto a vivere nella quotidianità una situazione presa a prestito dalla più improbabile delle sue spy stories. Esplode così, in un tripudio di vivacità picaresca e nel continuo rimando al proprio e ad altri universi narrativi, la satira di un mondo in cui domina la discontinuità, e in cui la vita è solo «una sequenza di fotografie evanescenti, postate un giorno dopo l’altro».

Il cammino del cavaliere errante si sovrappone alle avventure di Alice in un paese che sta sciupando tutte le sue meraviglie; Sancho si rispecchia in Pinocchio e incontra un Grillo Parlante italiano; Don Chisciotte diviene Geppetto e insieme si ritrovano a fronteggiare un’invasione di mammut, parenti non troppo lontani del Rinoceronte di Ionesco; in un salotto letterario indiano, il poeta (reale) Nissim Ezekiel incontra la pittrice Aurora Zogoiby e il suo amante Vasco Miranda, usciti dalle pagine di un altro romanzo di Rushdie, L’ultimo sospiro del Moro.

Nel vorticoso girotondo di rimandi si alternano riferimenti a Moby Dick e situazioni che rinviano a Men in Black o Ritorno al Futuro, mentre sulle note di Paul Simon si svolge una sottotrama fantascientifica mutuata da Arthur C. Clarke, e l’Odissea di Quichotte (e del suo Sancho/Telemaco) si snoda attraverso le sette valli insidiose che conducono al mitico Simurg, il fantastico re dei volatili, che appare nel poema sufi del XII secolo, La conferenza degli uccelli, di Farid-ud-Din-Attar.

Stare al gioco o lasciare
Procedendo, al solito, per eccesso, Rushdie non si arresta di fronte ad alcuna frontiera del possibile, del grottesco, del troppo, e accumula nel Quichotte materiale per una decina di romanzi: o non riesce a imbrigliare la sua fantasia o si diverte troppo con le creazioni del proprio ingegno per sacrificarne qualcuna al senso della misura.

Fratello, l’autore fittizio, proclama che il suo Quichotte tratta di «amori ossessivi e impossibili, dei rapporti tra padri e figli, di liti tra fratelli … di immigrati indiani, del razzismo di cui sono vittime, dei furfanti che ci sono tra loro; di cyberspie, fantascienza, dell’intreccio tra realtà ‘reali’ e fittizie, della morte dell’autore, della fine del mondo». In un moltiplicarsi di specchi narrativi, non manca neppure la critica del romanzo a se stesso, fra brani di saggistica letteraria, disamine della tradizione picaresca e del teatro dell’Assurdo e anticipazioni di possibili rilievi circa la «notevole sospensione dell’incredulità» richiesta dall’intera vicenda.
Come sempre in Rushdie, nessuna via di mezzo è contemplata: o ci si lascia travolgere dalla sua esuberanza narrativa o losi respinge in nome del realismo, della verosimiglianza e del senso della misura. Del resto: «Forse la vita umana è davvero fittizia», e chi la vive non lo sa.