Alla grande attesa maturata attorno al terzo romanzo di Sally Rooney, Dove sei, mondo bello (da martedì disponibile in Italia nella limpida traduzione di Maurizia Balmelli per Einaudi, pp. 312, euro 20,00) hanno contribuito sia le vicende extraletterarie legate all’impegno politico dell’autrice, sia la implicita richiesta di conferma del grande successo raccolto dai titoli precedenti: Persone normali – trasposto in una serie apprezzata in tutto il mondo – e Parlarne tra amici (Einaudi, 2018 e 2019).

Acclamata «voce dei millennial», etichetta a volte dettata da un certo livore unito all’intenzione di svalutarne la qualità della scrittura, Rooney ha conosciuto detrattori di diversa estrazione, dai critici che ne deplorano la superficialità – di cui sarebbero indice le trame irrisorie con tanto di lieto fine, il realismo che pare ignorare ogni portata simbolica, la vaga sensazione nel lettore di un piacere effimero – fino ai lettori comuni disturbati dalla presunta morbosità e comunque dalla sfrontatezza con cui sono trattati temi quali la sessualità e le relazioni famigliari. Più difficile, invece, ragionare sulle iridescenze irlandesi e sulla valenza universale delle motivazioni addotte in un dibattito che corre su binari saldamente ancorati al territorio sociale in cui si svolge.

Riflessioni via missiva
La storia letteraria mostra numerosi precedenti in cui la periferia irlandese ha partorito ritratti vividi e insospettati di importanti sviluppi sociali ed estetici a ridosso di una temperie culturale apparentemente stagnante, ma che in profondità covava i presupposti di una imminente transizione. Troppo presto per negoziare i giudizi, non c’è dubbio che con questo terzo romanzo i lettori di Rooney aumenteranno. Composto da lettere, vita quotidiana, crescita sentimentale, condivisione di ricordi e voglia di ripercorrerli traendone senso, Dove sei, mondo bello mette in scena una vita sociale a volte divertita e altre volte frustrante ma sempre affrescata in modo nitido e spigliato. I dialoghi ne sono parte fondamentale grazie al loro alternarsi serrati e convincenti, persino al limite della plausibilità tanto è l’acume psicologico che esibiscono, rivelando una intensità di ragionamenti che perlopiù tiene a bada la deriva della pesantezza e si traduce in esplorazioni suggestive da parte di interlocutori paradossalmente ordinari nella loro unicità e straordinari nel restituire traiettorie di vite normali.

Mentre gli estratti narrativi apparentemente estranei a quel tragitto psicologico sintetizzano gli anni che passano in pochi, potenti dettagli materiali che richiamano alcuni passaggi della resa cinematografica di Jules et Jim da parte di Truffaut, lo scambio di lettere quanto mai riflessivo fra le due amiche protagoniste sembra voler scomodare l’intuizione romantica delle affinità elettive. Peculiare è semmai il modo in cui Rooney rappresenta la simultaneità delle vicende personali, il presente individuale ma interconnesso dei personaggi.

Così, ad esempio, Eileen si accorge di percepire Dublino come un tessuto delle cui trame fanno contemporaneamente parte il corpo dell’uomo che ama, la lontananza dell’amica più cara, la quotidianità di un altro uomo con cui abitava ma da cui è separata. L’insistenza con cui Rooney dà corpo a questa simultaneità di fatti e pensieri induce un senso di intensa sospensione, che diviene palese quando, all’apice della storia e dopo l’ennesima sequenza di concomitanze minute – il dettaglio di un carrello a gabbia spinto dal personaggio Felix, l’acquisto di una camicetta verde da parte di Eileen, un pensiero di Alice in dialogo con l’ambiente circostante – chiudono il capitolo, commentando coraggiosamente e tuttavia meno inopportunamente di quanto si potrebbe credere: «e la vasta terra ruotava lenta sul suo asse».

In altre circostanze, la voce narrante ricorre invece a catene di fatti consequenziali, da realismo ottocentesco, e semplicemente riavvolge il nastro della storia, dichiarando la successione di quanto accade. Questa alternanza e il relativo fraseggio dei tempi sfocia verso la fine in un incontro fisico che è anche rito di passaggio: «Quando qualche minuto più tardi Alice arrivò ai piedi delle scale, Eileen stava uscendo sul pianerottolo. In corridoio, alla fioca luce della lampada, si videro ed esitarono, … Eileen le mise un braccio sulla spalla. Se tu non fossi mia amica io non saprei chi sono, disse».

Il fenomeno letterario che Sally Rooney ha involontariamente contribuito a allestire grazie ai suoi romanzi ha fatto sì che i media mainstream si prestassero a soddisfare le brame voyeuristiche dei lettori. Ma cercare di distinguere – come pure si è fatto – il profilo biografico di una autrice estremamente parca di notizie su di sé nelle ombre proiettate sul romanzo è esercizio scivoloso e di magro interesse, che Rooney mostra di soffrire quando proietta sul personaggio di Alice che scrive alla amica il racconto di aspetti non sempre prevedibili della sua vita di scrittrice famosa, puntando il dito sull’autocompiacimento di una certa «cultura del libro» sulla quale si è andata via via innestando la «metastasi» della «cultura della celebrità».

Di contro, nel romanzo i giovani che circondano le protagoniste si riappropriano di temi sociali inventando per l’occorrenza un lessico nuovo, e questi temi li avvicinano attraverso la concretezza della propria esperienza, soprattutto riguardo alle relazioni fra loro e a una messa a fuoco identitaria che li fa mantenere a distanza di sicurezza dalla politica delle generazioni precedenti.

Giovani e politica
Sono del resto accattivanti i giochi di simmetrie fluide in cui i criteri della sessualità binaria subiscono smottamenti e portano a galla desideri e sentimenti più nascosti, grazie ai quali i ragazzi si avvicinano o si allontanano. Quando però la discussione fra di loro verte sugli aspetti più materiali della vita, il romanzo sembra denunciare l’inconcludenza spuntata di quanti si lamentano senza spingersi tuttavia fino a ripensare i paradigmi dell’esistente. E, infatti, una discussione al pub sul tema rovente degli affitti proibitivi e della crisi edilizia a Dublino trova esito in una sterile serie di aneddoti sull’avidità dei padroni di casa. Di fronte al dramma si ride, al riparo da un’indignazione fattiva. Non è un caso che, in questo episodio, Eileen si sottragga agli amici, esca dal pub e lasci senza saperlo che l’istinto la guidi verso la casa e il campanello di chi saprà accoglierla.

È forse sottinteso dal romanzo che la sinistra irlandese abbraccia le politiche identitarie con maggiore dedizione di quanto si dedichi a quelle sociali? Di sicuro almeno tre dei quattro protagonisti alla politica non rinunciano, e il romanzo si chiude attorno alla rivendicazione da parte di Alice di un impegno ambientalista legato a doppia mandata a una sorta di militanza ‘sentimentale’: una rivendicazione, nella sua indubbia legittimità, non si sa quanto persuasiva. Come in un gioco di specchi, Eileen risponde all’amica informandola di una decisione importante che non andremo a svelare; ma la sua è una scelta al cui approdo giunge dopo molte tribolazioni, una scelta a suggello della sua convinzione che – scrive –«il tratto più comune degli esseri umani non è la violenza o l’avidità ma l’amore».