Alias Domenica

Sallustio, un pessimista per la crisi di Roma

Sallustio, un pessimista per la crisi di RomaJohn Vanderlyn, Gaio Mario tra le rovine di Cartagine, 1807, San Francisco, Fine Arts Museums

Letteratura latina Propagandista cesariano? Moralista? Arnaldo Marcone riconsidera l’opera e la grande capacità analitica dello storico di Amiterno nel drammatico collasso repubblicano: Sallustio, Carocci editore

Pubblicato circa un anno faEdizione del 24 settembre 2023

Ripensare al proprio impegno politico, dopo che è finito male. Ripensarvi non da sofferto esule, ma da perdente. Ragionare sulla dissoluzione irreversibile del mondo di ieri, cui si apparteneva, con sguardo di necessità pessimistico, diffidente di ogni palingenesi, sicuro che il presente sia immedicabile. Di questo genere erano – o almeno tali appaiono ai lettori moderni – i pensieri dello storico romano Sallustio, ancora oggi letto a scuola, anche per i suoi pregi di stile. Da controverso collaboratore di Cesare, si fece storico di Roma, mentre la città era finita sotto il dominio dagli eredi del dittatore ucciso, e lacerata dalle loro discordie. Non scrisse tuttavia sul presente, ma sulla storia recente della repubblica. Prima studiò la crisi politico-sociale scoppiata, pochi decenni prima, intorno a Catilina; poi, retrocedendo nel tempo, narrò la guerra in Africa contro Giugurta, dove si rivelava la crisi etica della classe dirigente, infine stese un’ampia opera sul periodo da Silla a Pompeo: ne viene un personale quadro della «rivoluzione romana».
Un ripensamento di questo storico offre ora Arnaldo Marcone in Sallustio Storiografia e politica nella Roma tardorepubblicana (Carocci editore, pp. 155, € 18,00), seguendo un percorso storiografico che muove da importanti esegesi moderne, a partire da Mommsen. Negli anni tormentati al centro del I secolo a.C., Sallustio ebbe una discussa attività politica: solo la protezione di Cesare lo salvò da gravi conseguenze. Dopo l’assassinio del suo riferimento politico, egli si volse, disgustato dal presente, alla storia: un second best, a suo dire, ma pur sempre una continuazione della politica con altri mezzi. Quale politica, però? Ridimensionando l’idea che egli si facesse storico perché «partigiano», vòlto a giustificare l’operato di Cesare, o che divenisse invece pensoso e distaccato moralista, Marcone indaga, sulla scia di importanti lavori, il raccordo tra la riflessione di Sallustio e il tormentato periodo durante il quale compose le sue opere (morì nel 34 a.C.). Sallustio non scrisse suggerendo un parallelismo con il presente, ma secondo l’idea che dagli eventi derivassero urgenti domande sulle cause reali del collasso della repubblica. «Nessuna carriera meglio di quella di Giulio Cesare risultava utile per illustrare i rischi, ma anche i benefici, che si potevano ottenere dal consolidamento dell’autorità nelle mani di un uomo forte» (Marcone). Le scelte degli eredi di Cesare furono la spinta all’indagine, prudente, retrospettiva e condotta con arcigni toni catoniani: segno di disagio verso la contemporaneità. Con l’assassinio di Cesare, in effetti, era «stata uccisa l’unica personalità in grado di rinnovare a fondo la Repubblica contro i nobiles».
L’esame di Marcone parte, naturalmente, dalla Guerra di Catilina, con ponderate riflessioni sulla natura della documentazione e un opportuno spazio, qui e in genere nell’opera di Sallustio, verso i temi sociali che erano alla base anche della mancata rivoluzione del 63 a.C. (interessante, sul punto, il raffronto col recente libro di Canfora, uscito poco prima di questo: vd. «AliasD» del 28 maggio u.s.). Il moto catilinario era segno della crisi «irreversibile» della repubblica romana: Cicerone sbagliò, nel menar vanto di averla salvata. Della Guerra di Giugurta è anzitutto il contesto locale e internazionale, lasciato in ombra da Sallustio, a essere considerato. La Numidia era un territorio dal confine mal definito, e poco romanizzato. Negli anni in cui si combatté (112-105 a.C.), la gestione delle recenti, grandi conquiste nel Mediterraneo impegnava Roma in sforzi enormi, in vari scacchieri. Ciò forse rese incerta la condotta di una «guerra coloniale», utile a rimettere ordine in un regno satellite agitato da una disputa successoria. Sallustio, che conosceva la regione per averla (malamente) amministrata come governatore, affrontò il mondo numidico con schemi etnografici e pregiudizi etnici: solo il vecchio re Massinissa, fedele a Roma, sfugge all’accusa di slealtà già toccata ai cartaginesi. Ma Roma ne esce pure peggio: il giudizio sulla nobilitas è molto severo. Giugurta poté comprendere che a Roma qualunque decisione politica era (o poteva essere) oggetto di mercanteggiamento. Ciò diviene un’accusa che grava sull’intera classe dirigente romana.
L’interesse storiografico porta a riflettere sugli strumenti adibiti da Sallustio, lo storico che Quintiliano elogiò per la immortalis velocitas, la sinteticità inarrivabile, che tanto doveva al modello, variamente seguito, di Tucidide. Rimasto celebre per certi stilemi arcaizzanti, Sallustio si servì di ricorrenti schemi di interpretazione come, per esempio, la dura polemica contro la luxuria, lo sfarzo immotivato dei pochi ricchi. Correlativo alle accuse di corruzione, e frequente nella letteratura romana, l’anatema contro il lusso delle abitazioni private, costruite «dopo aver spianato montagne e colmato i mari», diviene il segno di una mostruosa hybris che ha travolto la sobria decenza degli antenati portando a una vita contro natura. Di Sallustio, poi, furono meritatamente celebri i discorsi. Se una convenzione degli storici antichi induceva a non riportare in forma diretta «discorsi che il loro autore avesse fatto circolare» (per esempio, quelli di Cicerone contro Catilina), quando si mise a comporli di sua mano Sallustio li lavorò con grande cura: essi risultano caratterizzati più per il «colore» autoriale che per la fedeltà a uno stile dei locutori. La costruzione è assai abile (alcuni vennero estratti dalle sue Historiae come pagine specialmente significative), e la capacità di introspezione, insieme al tono morale e giudicante, li ha resi pagine specialmente celebri.
Qualcosa di simile può dirsi per i ritratti: memorabili, ma non sempre affidabili. Ai lettori resta impresso quello di Catilina, prototipo dei «ritratti paradossali» costruiti sulla compresenza di grandi vizi e altrettanto grandi qualità: «Corpo resistente alla fame, al freddo, alla privazione di sonno, più di quanto chiunque potrebbe. Animo pronto a tutto, ambiguo, cangiante, capace di simulare e dissimulare ogni cosa volesse, bramoso dell’altrui, dissipatore del proprio». Accanto, naturalmente, il confronto tra Cesare e Catone, affidato anche a un celebre, lunghissimo scontro oratorio. Nella seconda monografia, invece, ritratti memorabili vanno a Giugurta, Mario e Silla. Il confronto è ancora vario: se Giugurta è un astutissimo giovane capace di guadagnarsi la fiducia altrui «moltissimo agendo, e di sé parlando pochissimo», in Mario c’è soprattutto un «ideal-tipo: l’homo novus senza macchia dai brillanti successi conseguiti sul campo contrapposto alla superbia dei rappresentanti della nobilitas». Verso Cecilio Metello, che gestì la guerra, Sallustio pare provare un certo pregiudizio ideologico, così da sminuirne la condotta di guerra. Il console, osserva Marcone, portò la campagna a un punto decisivo, pur se la vittoria decisiva non fu opera sua: la liquidazione di Giugurta venne dal tradimento, quando il mauretano Bocco decise di sottrarsi allo scontro diretto con Roma. Di Silla, poi, emerge nella Giugurtina un ritratto ambiguo e troppo breve, integrato altrove da giudizi severi. Anche nelle perdute Storie non mancavano discorsi memorabili: ma la pagina più celebre è una lettera (fittizia) in cui il re Mitridate ammonisce Arsace a non fidarsi mai dei romani, travolti sempre da «una sola e già antica ragione di muover guerra, ossia una brama radicata di potere e ricchezza». Dietro questa celebre denuncia c’è una seria riflessione (già presente in Cesare) sulle ragioni per cui i popoli sottomessi serbavano ostilità, talora tenace, contro Roma: il tema interessò anche Tacito, e arrivò fino all’invettiva di Jacopo Ortis contro i Romani «ladroni del mondo».
Il libro si chiude con una pacata riflessione sopra la ricerca moderna sullo storico. I due saggi sallustiani più noti in Italia sono opera di uno storico (Syme, 1964, trad. it. ’68) e di un latinista (La Penna, ’68, rist. 2018). Libri molto diversi, che ambivano a una lettura totale dell’autore: se ne discute, qui, ragionando quale linea abbiano successivamente preso gli studi. Poco ha giovato la divaricazione tra l’approccio storico e quello stilistico-letterario: senza visione unitaria, e diacronica, la ricerca rischia di insterilirsi in asfittici specialismi. Qualcuno, prima o poi, arriverà a spiegare che Catilina e Giugurta erano «il nemico geniale», e «il numida favoloso».

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