Così indigeribile da essere rimontato in corsa solo due settimane dopo l’uscita in sala. È Salinger di Shane Salerno, (almeno tre persone durante spettacolo a cui ho assistito io – nonostante il biglietto costasse 14 dollari e il mio vicino si fose preventivamente portato una bottiglietta di whisky – sono andate via). [do action=”citazione”]L’anticipatissimo documentario che avrebbe dovuto dirci «tutto» sull’autore di Il giovane Holden e che invece, al suo arrivo nei cinema americani, il 6 settembre scorso, è stato accolto da un mix di gelo, recensioni devastanti e defezioni prima della fine[/do]

Harvey Weinstein, che distribuisce il film e ha fede incrollabile nelle sua capacità di promozione, è corso ai ripari. E alle forbici. Da venerdì, Salinger è «tornato» nelle sale Usa in una versione diversa da quella che si vedeva fino a giovedì sera. Per tener conto – dicono regista e distributore – delle critiche fatte al documentario dopo le proiezioni a Telluride e Toronto.

Ma sembra praticamente impossibile che 13 minuti in meno e 8 in più di nuovo materiale aggiunto possano cambiare il destino di un film così sbagliato e brutto.

Denso di quell’intreccio tra il peggior servilismo/timore nei confronti del proprio soggetto, e il desiderio di infangarlo che caratterizza l’attuale «celebrity culture», Salinger è arrivato in tandem con una nuova biografia (a firma di Salerno e David Shields), ugualmente stroncata. Film e libro (698 pagine) sarebbero il frutto di un lavoro decennale, da cui l’unica informazione degna di nota che si trae (e che il NY Times aveva anticipato varie settimane fa), arriva da fonti anonime («indipendenti e separate» dice il testo dattiloscritto sullo schermo). No, Salinger (mancato nel 2010) non aveva smesso di scrivere nel 1965 – dopo l’uscita sul New Yorker del racconto Hapworth 16, 1924, quando l’autore si era più o meno ufficialmente ritirato dalla vita pubblica. Tra il 2015 e il 2020, secondo una sequenza ordinata da lui agli eredi – sarebbe infatti prevista la pubblicazione di alcuni suoi nuovi lavori. Tra cui: un romanzo basato sul suo rapporto con la prima moglie, la tedesca Sylvia Welter (forse Gestapo suggerisce il doc, senza provarlo), uno sulla sua esperienza di agente del controspionaggio militare durante la seconda Guerra mondiale, cinque nuovi racconti incentrati sulla famiglia Glass, un possibile sequel di The Catcher in the RyeIl giovane Holden, The Last and the Best of the Peter Pans, e un manuale sulla filosofia religiosa del Vedanta di cui Salinger (come, ad esempio, Isherwood) è stato seguace per molti anni.

In attesa di quello che si annuncia come un evento editoriale di portata cosmica (Il giovane Holden continua a vendere circa 250.000 copie all’anno), purtroppo ci rimane Salinger, due ore e più di bassa psicologia, dichiarazioni genericamente sibilline, illazioni non comprovate, e un uso iper ripetitivo delle immagini di repertorio – le tre o quattro nuove foto dello scrittore vengono riproposte cento volte, come in un film a zero budget e idee. Il tutto condito da una musica roboante e da ricostruzioni drammatiche – un giovanotto alto in blu batte freneticamente i tasti di una vecchia macchina da scrivere, corre disperato giù da una rampa di scale dopo che un editore ha rifiutato il suo manoscritto. O ancora – la più suggestiva di tutte – si aggira per i boschi con un tronco sulle spalle, molto in stile Non aprite quella porta.

Come da credits, Salinger è punteggiato di apparizioni letterarie celebri – E.L Doctorow, Tom Wolfe, John Guare, Gore Vidal, Robert Towne, il regista Judd Apatow (ha una sola battuta, in cui dice che Salinger è molto divertente!). Più attori alla rinfusa come Philip Seymour Hoffman, Martin Sheen, John Cusack, Ed Norton… Offrono dichiarazioni brevissime, montate all’osso – quasi sempre soundbytes che non hanno il tempo di farsi sostanza. Ma la maggior parte delle teste parlanti che popolano il documentario è fatta di «esperti». Nomi con al fianco l’etichetta «storico di guerra», «psicologo», «giornalista», «biografo», come i prodotti generici del supermercato, tutti pronti a dire la loro: «Salinger era Holden»!. Accomunati, sembra, da un totale disinteresse per l’opera e da un desiderio smanioso di «spiegare l’uomo». Posto che le restrizioni rigorosissime di copyrights che l’autore ha imposto sui sui scritti non avranno permesso a Salerno di usarne i testi, il grande assente in Salinger è la sua lingua, il suo immaginario, i suoi personaggi. Se si eccettua, forse, il momento in cui John Guare ricorda come gli omicidi di John Lennon e Rebecca Shaffer, e l’attentato a Reagan fossero stati compiuti da persone ossessionate da Il giovane Holden.

O quando si intervista Jean Miller, che aveva incontrato Salinger in Florida a quattordici anni, e avrebbe ispirato il racconto For Esmé – with Love and Squalor (uscito in Italia in Nove racconti, Einaudi). Una scena qualunque dei Tenenbaum di Wes Anderson ci dice più di tutto questo film. E, visto che insieme a Gatsby (e Ahab), Holden è uno dei personaggi emblematici della letteratura americana, va detto che in confronto a Salinger il Gatsby di Baz Luhrman con le parole del romanzo in 3D che galleggiano nel buio della della sala, è quasi un’esperienza visionaria.

J.D. Salinger, ricostruisce Salerno senza mai approfondire, veniva da una ricca famiglia ebrea di Park Avenue, la bellissima debuttante Oona O’Neil gli spezzò il cuore abbandonandolo per Charlie Chaplin, soffrì moltissimo in guerra (D Day, la battaglia delle Ardenne, la liberazione di Dachau vengono raccontati come se fossero stati un vissuto traumatico solo per lui). Prediligeva le donne giovani (ma il doc riscontra rapporti sessuali solo con maggiorenni), non è stato un marito e un padre modello perché passava giornate intere chiuso in una capanna a scrivere.

Il che ovviamente non lo rende un personaggio particolarmente interessante, né offre chiavi sulla sua arte.
In definitiva (come emerge in un’intervista alla scrittrice Joyce Maynard che, diciottenne, visse con Salinger in New Hampshire) il peccato principale che Salinger imputa all’oggetto della sue devozione/diffamazione è di non aver «amato» a sufficienza «il mondo». Di film brutti ce ne sono tanti, e si dimenticano in fretta. Ciò che purtroppo rende Salinger più indelebile è il suo riflettere la banalità dilagante del nostro tempo.