«Il massimo che gli israeliani sono disposti a concedere è meno del minimo di quel che i palestinesi sono disposti ad accettare», dice al manifesto l’intellettuale palestinese Salim Tamari, direttore dell’Istituto di Studi palestinesi, autore di importanti opere di sociologia politica, storia sociale e di studi sulle culture del Mediterraneo. Lo abbiamo incontrato alla Casa internazionale delle donne a Roma, ospite della campagna «Cultura è Libertà»: promossa per «sostenere e diffondere la ricchezza della cultura palestinese, la sua bellezza, la sua forza», tenace e viva nonostante l’occupazione israeliana. In sala, Isabella Camera d’Afflitto parla del «segno femminile nella cultura palestinese», sulle immagini della mostra di Bruna Orlandi, «Paesaggi rinchiusi». Dietro, il lavoro di tante altre, Ada Lonni, Elisabetta Donini, Alessandra Mecozzi, Luciana Castellina… Sullo schermo, una foto seppiata del primo Novecento. Tamari nomina figure e contesti: Anbar Slama, Serene Husseini, Adele Azar… tre pioniere del femminismo in Medioriente.

Un uomo arabo che parla di femminismo?

Mi interesso molto al femminismo, alle donne che hanno legato la propria emancipazione a quella del loro popolo. All’inizio provenivano da famiglie importanti ed erano attive in quanto moglie e madri, poi alcune di loro hanno assunto un profilo autonomo, si sono separate dalla traiettoria familiare soprattutto negli anni Venti, nella prima fase del movimento nazionalista. Poi c’è stato tutto un ciclo di figure femminili protagoniste.

In che rapporto con le lotte di liberazione e con quella palestinese?

Negli anni ‘70 e ‘80 molti gruppi nascono come ramo femminile di importanti partiti politici o di gruppi nazionalisti come Fatah. Negli anni ‘90 molti di questi gruppi diventano indipendenti e in alcuni casi anche più grandi dei partiti politici d’origine. Dopo la crisi della sinistra, dal ‘93-‘94 i gruppi di donne continuano a lottare e a esistere anche se in maniera meno radicale. Esistono tuttora, anche se in dimensioni ridotte, la loro agenda non è cambiata.

Quale lettura dà del femminismo islamico?

I gruppi più importanti nelle associazioni di donne oggi sono costituiti dalle organizzazioni femminili legate ad Hamas e ad altri gruppi islamici. La loro visione dell’emancipazione femminile è molto diversa da quella delle organizzazioni di cui parlavamo prima. È più concentrata sull’idea di riarmo morale per le donne, sull’incoraggiamento alla lotta contro l’occupazione israeliana, all’incremento del lavoro femminile e alla difesa della famiglia. L’insistenza sulla protezione della famiglia e sull’istruzione femminile è vista come chiave per rafforzare i legami interni alla comunità islamica. È però significativo che i numeri di queste organizzazioni siano pari se non superiori a quelli delle organizzazioni maschili.

Dopo la scomparsa dell’Unione sovietica la bandiera dell’antimperialismo e della questione sociale è stata ripresa dai movimenti islamici. Come stanno le cose in Palestina?

Per noi il Muro di Berlino non è mai caduto, anzi ce ne stanno costruendo altri, i gruppi islamici trovano linfa nell’antimperialismo, seppure in una logica antioccidentale, caratterizzata da una critica alla modernità, alla laicità, a quella che viene considerata la corruzione dei giovani.

Si è conclusa la lunga corsa di Sharon, mentre continuano le occupazioni selvagge. E gli Usa riparlano di negoziati «giusti ed equilibrati»

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Su Sharon non mi sento di dire niente. Quanto ai negoziati, penso che non andranno da nessuna parte: il massimo che gli israeliani sono disposti a concedere è meno del minimo di quel che i palestinesi sono disposti ad accettare. Sulla questione dei confini, della valle del Giordano, di Gerusalemme e dei rifugliati Israele non è disposto a concessioni. Il problema è che succederà dopo, se si andrà verso uno scenario di occupazione prolungata, di apartheid o cos’altro: il cosa succederà dopo è quello su cui ci dobbiamo concentrare ora.