Salerno ha un territorio di quasi 59 kmq, per la maggior parte collinare, a tratti anche impervio; la zona pianeggiante costiera non ne copre più di un terzo. La popolazione residente, pari a circa 91mila abitanti nel 1951, salì a oltre 157mila nel 1981 riducendosi poi progressivamente fino a quasi 133mila nel 2011.

La città crebbe fisicamente soprattutto negli anni del boom (circa 11mila abitazioni e oltre 42mila stanze in più soltanto negli otto anni fra 1961 e 1968) sfruttando fino all’ultimo metro quadrato le zone edificabili del piano regolatore generale (Prg) redatto da Plinio Marconi (1958). Quel Prg non fu mai adeguato alla normativa sugli standard (1968) e, giocando sull’equivoco, molte lottizzazioni successive realizzarono ingenti volumetrie private senza trasferire al comune le prescritte urbanizzazioni primarie e le aree per le urbanizzazioni secondarie. Le periferie recenti salernitane sono fra quelle più carenti in Italia di spazi e attrezzature collettive e il traffico automobilistico a Salerno è da allora un problema sempre più grave.

In quegli anni le ambizioni della borghesia imprenditoriale e mercantile, con interessi fortemente intrecciati ai meccanismi della rendita urbana, si concentrarono – grazie anche alle relazioni privilegiate con il governo e la Cassa per il Mezzogiorno – sulla costruzione del nuovo porto, da un lato, e sull’infrastrutturazione dell’area industriale, dall’altro, ubicati agli estremi opposti della città: il porto a ridosso della costa alta del primo tratto della Costiera d’Amalfi, l’area industriale all’imbocco della piana del Sele. Due operazioni che conferivano un supporto non solo simbolico al ruolo polarizzante di Salerno nella regione, documentato dalla immigrazione dall’hinterland, ruolo che la dirigenza salernitana ha tentato a più riprese di valorizzare secondo l’aspirazione, invero un po’ velleitaria, a un qualche «sorpasso» sulla Napoli ex capitale in declino.

La gestione territoriale della città negli anni ’80 dimostrò la gravità delle contraddizioni antiche e recenti. Si tentarono varie soluzioni spesso confuse e contorte (negli anni di «tangentopoli» ci fu anche chi propose di attribuire nuova edificabilità alle aree per standard rimaste illegalmente in proprietà ai privati), finché si decise di dare alla città un nuovo strumento urbanistico generale (1989) con la consulenza di grido del catalano Oriol Bohigas.

Nel regno di De Luca

Negli anni seguenti l’Amministrazione comunale guidata da Vincenzo De Luca, divenuto sindaco nel 1993, forte della gestione efficace della città consolidata che vi ha conseguito condizioni di vivibilità e decoro inconsuete nel panorama meridionale, ha parallelamente sviluppato, attraverso meccanismi negoziali su progetti specifici, una strategia urbana orientata alla realizzazione di nuove sedi dei servizi di rango non locale, affidata a famosi architetti stranieri, e, insieme, di ingenti densificazioni edilizie.

Il Prg ha avuto una tormentata elaborazione all’insegna della prevalenza, sulle regole dell’urbanistica, dell’immagine architettonica collegata con le grandi edificazioni. Nel 2003 viene resa nota la versione finale del Prg che tuttavia non viene ancora adottato: nel dicembre 2004 l’approvazione della nuova legge urbanistica regionale giustifica una ulteriore rielaborazione che trasforma il Prg in Puc: «piano urbanistico comunale», secondo la modifica tutt’altro che nominalistica della legge regionale 16/2004, la quale articola il piano in disposizioni strutturali valide a tempo indeterminato e disposizioni operative da rielaborare con frequenza. In realtà il Puc conserva l’impianto e la fisonomia tecnico-normativa tradizionali del Prg, ma contiene nuove scelte ulteriormente favorevoli alla cementificazione. «Il confronto tra il piano del 2003 e quello del 2005 mette in evidenza una serie di variazioni, tutte peggiorative, che la dicono lunga sui veri motivi della mancata adozione nel 2003: pur lasciando inalterato il dimensionamento del piano, cresce l’edificabilità totale di mezzo milione di metri cubi; aumentano gli indici di conversione degli immobili industriali; l’edilizia residenziale pubblica, che Bohigas avrebbe voluto diffusa in tutta la città, viene concentrata in enormi e periferici quartieri-ghetto, capaci di ospitare fino a 5000 abitanti» (Fausto Martino). Grazie a una valutazione «politica», l’Amministrazione provinciale approva tuttavia il Puc senza troppi approfondimenti.

Il nocciolo strategico della politica comunale appare centrato sulla modernizzazione dell’immagine cittadina come confezione accattivante dello sfruttamento intensivo delle rendite di posizione. La visione del rapporto con il contesto territoriale delle giunte De Luca è priva di ogni connotato «metropolitano» dimostrandosi centralistica e autoreferenziale: tutta l’edificazione possibile nel territorio comunale, le cose di pregio nel quadrante urbano occidentale, le cose ingombranti nel quadrante sud-orientale (dall’ospedale allo stadio, dagli impianti per il tempo libero all’industria residua), la cosa occasionalmente suscettibile di grandi opportunità finanziarie – cioè l’inceneritore – in quell’estremo lembo orientale del comune che è incuneato nel territorio di comuni confinanti (saranno così questi a subirne la maggior quota dell’impatto).

Il miraggio del porto

Una vicenda di segno diverso è sembrata temporaneamente profilarsi nei primi anni 2000 in relazione al porto. L’impianto, gestito in modo accorto ed efficiente, ha visto crescere il suo movimento fino a esaurire ogni possibilità espansiva e, in presenza di prospettive internazionali confortanti, ha ritenuto di poter puntare a un salto di scala che obbliga però a una radicale delocalizzazione con la costruzione di un «porto-isola» davanti alla parte nord della piana del Sele. È sembrato così possibile immaginare un grande nodo infrastrutturale e logistico che metta a sistema il proposto porto-isola, l’aeroporto di Pontecagnano, la futura stazione Av di Battipaglia e i servizi che un simile nodo può attirare. È la prima volta che da Salerno si lancia un’idea che coinvolga altri territori in prospettive di sviluppo rilevanti (gran parte dell’Università, nei tardi anni ’80, fu localizzata a Fisciano-Baronissi solo per l’imposizione di De Mita che volle il «campus» come struttura in condominio fra il Salernitano e l’Avellinese). Purtroppo l’aeroporto è gestito invece molto male e stenta a conquistarsi un ruolo. E le politiche restrittive di governo e regione non solo obbligano oggi a rinviare a tempi indefiniti il salto di qualità sia per il porto che per la linea Av, ma impongono anche la cessazione del «metrò» ferroviario che a Salerno ha servito per qualche anno gli insediamenti comunali costieri, con un bacino di utenza evidentemente insufficiente.

Occorre a questo proposito sottolineare ancora la miopia municipalistica che non ne aveva considerato strategico l’inserimento organico e vivificante nella cosiddetta «circumsalernitana». Questa linea ferroviaria collega – con livelli di servizio oggi peraltro poco più che simbolici – la parte nord della piana del Sele con il capoluogo, con Cava de’ Tirreni e il Nocerino e con le valli della Solofrana e dell’Irno: una linea che serve la principale struttura urbana della provincia, con l’Università e servizi connessi e i poli industriali ancora attivi. Ma Salerno l’ha giudicata meno importante del «metrò» comunale, soltanto per il quale ha voluto binari e convogli appositi.

Sicché quelle odierne di Salerno sono vicende asfitticamente edilizie che sembrano delineare una prospettiva decisamente implosiva per la città. Due casi su tutti: il Crescent e la variante 2012 al Puc.

Il Crescent

Il cosiddetto Crescent (su progetto di Ricardo Bofill) investe aree in parte demaniali al bordo del porto storico di Salerno e al margine occidentale del centro medievale. Il progetto prevede un edificio privato per residenze e uffici, alto 28 m e lungo quasi 300, ubicato sull’arco aperto verso il mare della circonferenza di una grande piazza circolare; si stima che l’edificio possa ospitare 500 residenti e qualche centinaio di addetti al terziario in un sub comparto del Puc che resta privo di urbanizzazioni secondarie. L’intervento è iniziato (il rustico imponente già incide pesantemente sul paesaggio della prima Costiera), ma non ne è ancora certa la legittimità: si discute della ammissibilità di interventi privati su aree demaniali, si afferma che un vincolo idrogeologico relativo a un piccolo corso d’acqua sia stato ignorato, è in ogni caso necessaria ora una esplicita autorizzazione paesaggistica visto che anni addietro la Soprintendenza fece scadere i termini senza esprimersi. Il cantiere è stato sequestrato dalla magistratura nel novembre scorso e le polemiche infuriano tuttora.

La variante al Puc del 2012

Dopo 5 anni dall’approvazione del piano, invece di rielaborare la sola componente operativa del Puc (interventi prioritari negli ambiti classificati come trasformabili a fini insediativi dalla componente strutturale del Puc), l’amministrazione comunale dichiara delle «criticità» riportabili a una stasi dell’attività edilizia con il conseguente mancato introito degli oneri concessori che penalizza il bilancio comunale. Essa adotta perciò una variante al Puc che incide sulla trasformabilità delle aree ai fini della «valorizzazione del patrimonio immobiliare comunale»: in effetti ciò si traduce nell’attribuzione di rilevanti diritti edificatori a aree libere, di proprietà pubblica, collocate in zone centralissime della città e, peraltro, già classificate come standard. Il cerchio si chiude: quello che non era riuscito ai tempi di «tangentopoli» potrebbe realizzarsi oggi, impoverendo radicalmente la città delle sue dotazioni di spazi collettivi e incrementando la densificazione edilizia e la congestione dei quartieri centrali ancora a vantaggio soltanto delle rendite parassitarie.